di Prof.ssa Elisa Signori (Direttrice dell’Istituto Pavese per la Storia della Resistenza e dell’età contemporanea)
Il mio saluto va alle autorità civili, religiose, militari oggi qui presenti, agli studenti e docenti che vedo numerosi e voglio esprimere un caldo ringraziamento a chi mi ha coinvolto in questo momento di riflessione per il Giorno della memoria
80 anni ci separano dalla distruzione della macchina concentrazionaria nazista che ha inghiottito milioni di donne e uomini di tutta Europa.
25 anni, un quarto di secolo è trascorso da quando il Parlamento italiano con la legge 211 del 2000 ha istituito il Giorno della memoria e affidato alle istituzioni il compito «di organizzare […] momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione».
Forse è possibile abbozzare un bilancio di quegli 80 anni e di questi altri 25.
80 anni è convenzionalmente lo spazio di quattro generazioni: è stata «una strada lunga e una porta stretta» (Primo Levi) attraverso cui si è costruita nel tempo la consapevolezza di quella esperienza storica. Siamo arrivati a definirla come la più grande tragedia del XX secolo e, per tanti versi, un unicum per intensità di violenza, per scala di grandezza nella distruzione di vite umane, per impegno organizzativo, industriale e tecnologico e, infine, per rapidità. Sono ancora necessarie ricerche per illuminare questa storia, ancora non abbiamo ad esempio un’anagrafe completa degli italiani deportati nei lager – la solerzia dei capi campo nel distruggere registri e documenti è nota- ma disponiamo comunque di dati documentati e attendibili. Guardiamo dunque allo scenario italiano.
Sappiamo che il totale degli italiani censiti come ebrei deportati dall’Italia tra l’autunno ‘43 e la primavera ‘45 fu di 6806, un 20% dei quali di età compresa tra 0 e 20 anni – si calcola che almeno 39 treni, ma forse anche più furono utilizzati per trasportarli verso i KZ – e di questi deportati solo 837 si salvarono. Ma ai 5969 uccisi nei lager vanno aggiunte le vittime delle stragi razziali compiute in Italia nello stesso periodo – la strage alle Fosse Ardeatine a Roma, gli assassinati sul Lago Maggiore e a Meina, gli eccidi di Pisa e di Forlì per citare solo i più noti, che fanno salire a 6291 il bilancio dello sterminio razziale, un’amputazione dolorosa dalla comunità nazionale di italiani – identificati 4125 uomini e 3735 donne –che il censimento del 1938 aveva definito “ebrei”. Ne erano allora stati contati circa 40.000 pari all’1‰ della popolazione italiana complessiva. [Ma il computo delle vittime razziali non è concluso, perché ancora oggi mancano i dati di un altro migliaio di italiani “ebrei” di cui si sono perse le tracce]
La deportazione italiana ci appare nella sua sconvolgente realtà di un fenomeno di violenza, schiavitù e morte di massa quando guardiamo alla sorte dei cosiddetti “politici”,i triangoli rossi, una categoria distinta dai triangoli gialli della deportazione razziale.
Uso l’espressione “politici” tra virgolette, perché nel novero dei circa 40.000 donne e uomini arrestati e deportati dall’Italia tra il settembre 43 e il marzo 45 la caratterizzazione politica e ideologica è assai varia e talvolta sfumata, in una gamma di scelte e atteggiamenti che vanno dalla resistenza in armi alla cospirazione clandestina antifascista, dalla renitenza ai bandi della Repubblica di Salò all’aiuto ai prigionieri inglesi e americani evasi, dalla creazione di reti ai assistenza per gli ebrei e per il loro espatrio in Svizzera all’ organizzazione degli scioperi operai e infine alla casualità, che vide i civili rastrellati per le strade perchè semplicemente sospetti o perché servivano braccia al Reich.
Questi 40.000 italiani andarono incontro a destini diversi, alcuni mandati in Germania come “lavoratori volontari”, di fatto schiavi di Hitler, chiusi nei lager di Mauthausen, Dachau, Flossenbürg, Bergen-Belsen Ravensbruck. Gli studiosi hanno identificato i nomi di 23.826 italiani (22.204 uomini e 1.514 donne) arrestati e deportati nei lager nazisti per motivi politici. Di questi 10.129 non tornarono. E’un bilancio che integra quello delle vittime italiane della deportazione ebraica.
Tra le tante vicende italiane della 2GM, quella degli internati militari, gli IMI, i prigionieri di guerra catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943, costituisce infine un capitolo diverso ma tutt’altro che marginale: circa 700.000 italiani in divisa, ufficiali e soldati delle diverse armi, catturati dalla Wehrmacht in Italia e soprattutto all’estero furono disarmati e deportati in Germania. Prelevati da guarnigioni italiane e dai vari fronti di guerra aperti dal regime fascista, nel quadro di una politica estera di aggressione tanto criminale quanto velleitaria, e poi lasciati allo sbando dalla maldestra manovra di armistizio dell’8 settembre 1943 furono inviati in campi di prigionia e lavoro coatto. Negato loro lo status di prigionieri di guerra, previsto e protetto dalle convenzioni internazionali, si apri per loro un’esperienza di prigionia, in condizioni molto diverse: per lo più non conobbero i campi di vero e proprio sterminio, ma furono comunque vittime di violenza e denutrizione, considerati manodopera rimpiazzabile e pertanto in condizioni di sfruttamento intensivo per lavoro, tale che 50.000 circa di loro non tornarono. Ma la valenza politica della loro esperienza risalta quando si ricordi che fu data loro l’opportunità di tornare in libertà purché si arruolassero sotto le insegne della Repubblica Sociale Italiana e del Terzo Reich e la stragrande maggioranza – la stima è di 9 su dieci- rifiutò con un’esplicita scelta di campo che fu a ragione detta «un’altra Resistenza».
Si negò così a Salò una legittimazione di cui aveva disperato bisogno e a Berlino energie e risorse per la sua vittoria. L’esperienza di questi resistenti senza armi, a lungo negletta, grazie a una stagione di intensa fioritura memorialistica e storiografica, è ora inscritta appieno nel quadro dello sfruttamento della mano d’opera schiava che il Terzo Reich realizzò in tutta Europa. Si calcola che i lavoratori sfruttati dal Reich furono circa 14 milioni, il bilancio più pesante fu quello dei prigionieri sovietici, forse 5,7 milioni di persone, di cui 3,3 milioni perirono.
Dunque la deportazione è un fenomeno complesso, un prisma dalle molte facce: accanto al genocidio ebraico, – ma ricordiamo anche la deportazione degli “zingari” di tutta Europa e degli omosessuali – sta un progetto politico di enormi proporzioni: annientare qualsiasi forma di opposizione al potere nazista e fascista nel quadro di quel novus ordo da costruire in Europa sul fondamento di due pilastri: la gerarchia razziale e il modello politico dello Stato totalitario
I dati appena riepilogati qui sono noti eppure richiamarli non è un’inutile pedanteria visto che, ancora oggi, questa realtà storica è negata o minimizzata da settori non insignificanti dell’opinione pubblica: secondo il rapporto 2024 di Eurispes Italia il 15,9% degli italiani sminuisce la portata della Shoah, il 14,1% la nega del tutto. Confrontando questi sondaggi con quelli degli anni precedenti emerge l’esistenza, nel nostro Paese, di uno “zoccolo duro” di cittadini, del tutto impermeabili all’insegnamento della storia, ai risultati di ricerche inoppugnabili come alle testimonianze dirette dei sopravvissuti, ormai in gran parte scomparsi.
Accanto a questo negazionismo più o meno strisciante ci sono altre forme di rimozione e di distorsione della realtà storica.
La legge istitutiva del Giorno della memoria fu approvata all’unanimità, pochissimi gli astenuti. L’art.1 fissa la data al 27 gennaio, giorno «dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz». E nei due articoli che la compongono ricorrono le parole «persecuzione», «nazisti» «ebrei», ma è inutile cercare «fascismo» o «fascisti» in quelle righe. Queste scelte, lessicali e non, aiutano a spostare altrove, fuori dall’Italia, la barbarie dei lager e a farne ricadere la responsabilità esclusiva sul Terzo Reich e sul popolo tedesco. Con la conseguenza però di oscurare la percezione del ruolo di coprotagonisti che i fascisti – dalle Brigate Nere alla Guardia Nazionale Repubblicana all’Ufficio Politico Investigativo su su fino all’élite dirigente della Repubblica Sociale Italiana e dello stesso Mussolini – ebbero in questa storia.
Sappiamo che nella individuazione degli ebrei italiani si mobilitarono tutte le polizie di Salò per le quali la cattura di un ebreo era un titolo d’onore e taglie allettanti furono fissate dai fascisti per la consegna- ad esempio 5000 lire per un uomo adulto. La metà circa degli arresti degli ebrei italiani fu eseguita da fascisti italiani, soli o al fianco delle forze tedesche d’occupazione, e, quanto ai rastrellamenti, questi furono resi possibili solo grazie all’incondizionata collaborazione dei funzionari italiani come nel caso della Judenaktion di Roma.
Un esempio. Negli ultimi giorni del settembre 1943 al Viminale si consegnarono ai tedeschi i registri della Direzione generale demografia e razza, la famigerata Demorazza, con gli elenchi degli ebrei residenti in Italia. All’alba del 16 ottobre 1943 scattò così il rastrellamento casa per casa di 1259 ebrei romani, tra cui 207 bambini: 1024 di loro furono deportati, 16 sopravvissero. Fu la «razzia» degli ebrei romani raccontata in uno dei classici della nostra letteratura da Giacomo Debenedetti.
Nessun dubbio esisteva sulla sorte dei deportati e lo stesso Mussolini era informato che la “soluzione finale” aveva investito totalmente l’Italia di Salò. Per fugare ogni dubbio al riguardo il 14 novembre 1943 nel primo e ultimo congresso della RSI fu promulgata la Carta di Verona, una sorta di Costituzione della RSI, approvata all’unanimità, il cui art.7 recita «Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri, durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica», Spogliandoli della loro cittadinanza italiana Salò gettava così le basi per mettere gli ebrei al bando, cancellava ogni garanzia per la loro incolumità e dava carta bianca al piano genocida.
Il protagonismo fascista è ancora più decisivo nella persecuzione dei politici, dei resistenti con o senza armi, degli antifascisti e di quanti li aiutavano: i “ribelli” cioè i partigiani, come ogni altro vero o presunto oppositore erano l’avversario da braccare e eliminare. La deportazione dei 40.000 “politici” italiani fu uno degli esiti di quella guerra aperta. Per fare un esempio: la caduta del primo Comitato di Liberazione Nazionale di Pavia si dovette allo spionaggio dell’UPI e all’infiltrazione di un informatore; fu poi nel carcere di via Romagnosi che si torturò il primo catturat, Angelo Balconi, e , dopo il suo cedimento alle torture fisiche e psicologiche, si arrestarono gli altri 4, inviati al VI raggio di San Vittore e di lì deportati. Angelo Balconi, Luigi Brusaioli morirono nei lager, tornarono prostrati nel fisico in 3 : Lorenzo Alberti, Ferruccio Belli e Enrico Magenes.
Dunque è troppo facile cedere alla tentazione autoassolutoria di rappresentare il nostro paese secondo il paradigma della vittima del sistema nazista e estrapolare da questa storia il ruolo del fascismo persecutore e volenteroso carnefice accanto alle SS e alla Wehrmacht. Così nella deportazione come in tanti eccidi perpetrati contro i civili nei mesi di guerra.
In altre parole, la “porta stretta” di cui scrive Levi è a tutt’oggi troppo stretta se non si vogliono fare i conti con la realtà storica della RSI, se si coltiva la narrazione edulcorata e confortante del fascismo come di una dittatura dal volto umano.
Si tocca qui il controverso rapporto tra storia e memoria. Vorrei sottolineare il ‘dovere della storia’ accanto al ‘dovere della memoria’ ,evocato anche nella citata legge del 2000: perché contro Auschwitz, contro la lucida programmazione della distruzione dell’uomo si educa con la storia, con la forza dei fatti e della ragione.
Poi, certo, sulla storia è bene che si innesti la memoria e che, a sua volta, la alimenti. Ma solo la ricostruzione storica accurata può rispondere al neutralismo di chi per moda, per calcolo, per disinformazione o per timore di schierarsi, non nega lo sterminio dei campi, ma ne discute questo o quell’aspetto, chiedendosi se poi è proprio tutto vero e non si tratti di propaganda a fini politici. Solo la storia può evitare i rischi della retorica negazionista, del revisionismo interessato, ma anche il rischio della “sacralizzazione”. Ossia la creazione di una memoria che scarta tutto ciò che può disturbare e porre problemi e congela il passato in una narrazione epica e astorica, che ci deresponsabilizza anche per il presente.
E veniamo alla domanda più urgente che attraversa queste nostre riflessioni negli ultimi 25 anni: riprendiamo ancora la legge del 2000 laddove dichiara che il suo obiettivo ambizioso è di «conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere»
Mai più?
La memoria è insomma evocata come un baluardo perché questa esperienza storica non ritorni, ma è un auspicio ottimista e mi si permetta di esprimere il mio disincanto al proposito. Non è con le celebrazioni, le cerimonie e i discorsi che si allontana la minaccia di un regresso nella barbarie della morte di massa e della schiavitù.
E c’è ben poco da essere ottimisti se ci guardiamo intorno. Il 2024 si chiude con cinquantasei guerre e conflitti nel mondo. E’ il numero più alto dopo la fine della seconda guerra mondiale. Sono 92 i paesi coinvolti e le vittime sono prevalentemente civili, donne e bambini. Accade in Paesi i cui popoli soffrono fame, malattie, violenze e violazione dei diritti umani più “sacri”: in Africa, in Asia, America latina, vicino a noi in Europa, con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin quasi tre anni fa e nel conflitto Israele-Palestina che si è pericolosamente esteso a quasi tutto il Medio Oriente. Finita la guerra fredda si sono accese molte guerre calde, è iniziata sotto i nostri occhi la corsa agli armamenti e incombe la minaccia nucleare, negata superficialmente da tanti.
Si affermano in tutto il mondo sistemi politici non democratici, dove le elezioni vengono manomesse, e deportazioni vere e proprie vengono realizzate e/o auspicate.
Per riprendere ancora una volta Primo Levi diciamo con chiarezza che Auschwitz in una democrazia non è pensabile (p.225) In altre parole soltanto in un contesto autoritario e totalitario è possibile che questa esperienza storica non sia morta e possa tornare. E non è così difficile che torni. Altre diverse piccole Auschwitz sono già intorno a noi alla luce del sole. In uno Stato che si impadronisce delle coscienze dei singoli, che ne induce a piccoli passi l’abitudine al conformismo e poi all’obbedienza, in un contesto nel quale i poteri si accentrino fino ad espropriare i cittadini dell’esercizio della sovranità decisionale, ecco lì Auschwitz può tornare con il suo disprezzo per l’Uomo, la subordinazione a un capo infallibile, la visione manichea del mondo diviso tra amici e nemici.
Ecco perché mi pare che a tutti spetti il dovere nei fatti di sventare questa minaccia. Quando sentiamo irrisi gli ordinamenti democratici, quando vediamo nel nostro presente una “crisi globale della democrazia”, quando si aggiungono attributi alla parola democrazia e si ammirano le cosiddette “democrazie illiberali”, quando si calpestano le costituzioni con i loro sistemi di difesa dei diritti e di pesi e contrappesi istituzionali dobbiamo capire che tocca a noi. E’in gioco il nostro presente-futuro.
Parafrasando Piero Calamandrei, uno dei nostri padri costituenti, concludo dicendo che la democrazia non è una macchina che messa in moto va avanti da sé. Essa vive solo grazie al nostro impegno, alla nostra partecipazione attiva e ci tocca farcene carico.
Dunque non c’è una formula che realizzi nei fatti il mantra del «mai più Auschwitz», non sappiamo come evitarlo, ma sappiamo come può capitare che accada di nuovo. Cito ancora Primo Levi: «Basta non guardare, non ascoltare, non fare».
Per i dati sulla deportazione ebraica cfr. https://www.cdec.it/formazione/percorsi/per-la-storia-della-shoah/statistica-generale-degli-ebrei-vittime-della-shoah-in-italia-1943-1945/
In generale sulla deportazione di militari, ebrei e politici cfr. G.Mayda, Storia della deportazione dall’Italia 1943-45, Torino Bollati Boringhieri 2002.
Sugli IMI: N.Labanca, Prigionieri, deportati, resistenti. Memorie dell’altra Resistenza”, Bari, Laterza 2022
Sui deportati pavesi cfr. M. A. Arrigoni, M. Savini, Dizionario biografico della deportazione pavese, Milano Unicopli, 2005 e
https//deportati pavesi.it
per il rapporto Eurispes https://eurispes.eu/news/risultati-del-rapporto-italia-2024/
Le citazioni di Primo Levi sono tratte da I sommersi e i salvati in Opere complete II, Torino Einaudi, 2016