25 aprile, l’orazione ufficiale di Anna Ferrando a Pavia

L'intervento integrale della docente dell'Ateneo pavese

Prof. Anna Ferrando, docente in storia transnazionale della cultura nell’Italia contemporanea al Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Pavia

 

Buongiorno a tutte e a tutti voi che siete qui in questo 79° anniversario della Liberazione dal nazifascismo, un saluto a tutte le autorità civili, militari, religiose e buon 25 aprile! Ringrazio l’ANPI, il sindaco e il comune di Pavia per avermi invitato a tenere questa orazione ufficiale. Confesso che sono molto emozionata di parlare qui di fronte a voi, all’Università dove ho studiato storia e dove ora insegno storia della cultura. Il compito che mi è stato assegnato e di grande responsabilità e occorre sapere trovare le parole giuste, ritrovare l’autenticità delle parole che usiamo quando parliamo di Resistenza, in un dibattito pubblico spesso inquinato, semplificatorio e incapace di distinzioni.

Come restituire allora senso e significato a quell’esperienza storica che fu al contrario, complessa, magmatica, fatta di percorsi individuali e collettivi, di geografie multiple, segnata dalla fame e del freddo, da massicci bombardamenti e dalle stragi nazifasciste, dalla rassegnazione e dalla stanchezza, ma anche da nuove scoperte e consapevolezze? Come comprendere oggi quella ripresa della parola dal basso che la Resistenza nel suo significato profondo implicò, dopo che per vent’anni il regime fascista aveva controllato le piazze, i luoghi della cultura, l’informazione, imbavagliando il dibattito, anestetizzando la società civile?

A maggior ragione, dunque, la parola responsabilità che ho evocato prima e che è mia oggi, che è nostra oggi, è proprio una parola della Resistenza. La Resistenza è stata assunzione di responsabilità di fronte al proprio passato e riconquista della dignità nazionale calpestata dal fascismo: l’esperienza tragica dell’8 settembre va compresa in questa duplicità, di crollo e di disperazione da un lato, ma anche come occasione di riscatto.

Un’occasione certo altamente rischiosa che implicava mettere a repentaglio la propria vita pur di non aspettare di veder liberato il proprio paese da qualcun altro. Eppure rischiarono, combatterono allora, scelsero, superarono la linea dell’indifferenza e dell’immobilismo dopo che per vent’anni, non avevano più avuto – e nella maggioranza dei casi di quei giovani nati ed educati sotto il fascismo mai conosciuto – il vocabolario della politica, dell’opposizione democratica, della disobbedienza civile… dopo l’8 settembre 1943 quei giovani presero le armi per tornare a parlare.

E che cosa vuol dire allora prendere la parola oggi, 25 aprile 2024? Mi sembra di parlare da un tempo fragile, qui a Pavia, in un’Italia e in un’Europa sempre più pervase da un registro bellico, in cui la guerra è così vicina, quella in Ucraina e in Medio Oriente, a Gaza; in un’Italia e in un’Europa segnate dalla tragedia dei morti nel Mediterraneo; un’ Europa in cui serpeggia – e ora siamo alla viglia delle elezioni europee – una disaffezione diffusa e profonda per la politica che rischia di tramutarsi in rifiuto di partecipazione, in rifiuto del proprio tempo storico, e in cui si fatica a desiderare il futuro. In questa Italia in cui si approfondiscono le diseguaglianze…

Cosa possiamo fare? Che cosa facciamo? Stiamo qui e guardiamo?

Sono le domande di Tina Anselmi nel settembre 1944 – riprese recentemente da Benedetta Tobagi nella sua Resistenza della donne – Insieme ai suoi compagni di classe dell’istituto magistrale di Bassano del Grappa Anselmi fu costretta a recarsi in viale Venezia, dove i fascisti e i nazisti impiccarono agli alberi 43 giovani, catturati in seguito a un grande rastrellamento sul monte Grappa. Fu uno spettacolo orrendo – ha ricordato Anselmi – partigiana, prima donna ministro della Repubblica italiana nelle fila della Democrazia cristiana – mettendo così a fuoco come la nausea per la guerra, il rifiuto per la violenza, siano stati per molti come lei uno dei motori all’azione: Noi odiavamo la morte, ma eravamo pronte a impugnare le armi per avere la vita. La resistenza è stata guerra alla guerra, un ideale forte di pace, un desiderio di rigenerazione.

Ma la ripugnanza per la guerra, per la guerra fascista era già stata nel 1943 una delle molle alle origini del movimento resistenziale – anche se non tutti, va detto, riuscirono a vincere quelle paure, quelle nausee e tornare a combattere. La guerra rimase nella memoria di quella generazione un evento periodizzante nelle proprie esistenze, un magnete a cui era impossibile non ritornare. Per la mia generazione, di noi nati negli anni Ottanta, i giovani e le giovani di allora sono stati i nonni e le nonne.

Gli occhi azzurri emozionati di mio nonno – io non riesco a parlare di queste cose mi diceva – sono stati il mio primo incontro da ragazzina con la guerra civile e con la Resistenza: mio nonno, contadino di un piccolo paese sulle colline monregalesi, classe 1921, terza elementare, che a fatica sapeva scrivere in italiano e preferiva anche quando parlava esprimersi in piemontese, non era riuscito a superare quella nausea e a imbracciare il fucile, dopo la corsa verso casa seguita all’armistizio e alla dissoluzione della IV armata in fuga dalla Francia. Ma ai bandi della Repubblica Sociale Italiana non rispose. E non era una scelta priva di significato, non era una scelta neutrale, senza rischio. Il decreto legislativo 18 febbraio 1944 stabiliva la pena di morte per renitenti e disertori.

E soprattutto quegli stessi bandi ebbero un effetto contrario perché non furono in pochi quelli che si diedero alla macchia, andando a ingrossare le file dei ribelli.

Le prime bande partigiane che si formarono, anche in modo spontaneo e confuso, dai soldati allo sbando dopo l’8 settembre 1943 erano l’esito di armi arrugginite, di bombe a mano inesplose, di scarponi che non reggevano il gelo e la neve dell’inverno russo: nella nausea di mio nonno c’era anche l’indicibile dolore per suo fratello Mario disperso in Russia, come si legge sulla sua tomba vuota.

5 ottobre (1943). Abbiamo battezzato la nostra formazione: I Compagnia Rivendicazione Caduti. Vogliamo vendicare i caduti di Russia, ha ricordato Nuto Revelli nella Guerra dei poveri, sottolineando come per se stesso e come per molti altri proprio la ritirata di Russia sia stata un’esperienza tragica e al contempo rivelatrice che segnò, nel diffuso sentimento antitedesco, la scelta di combattere la guerra di Liberazione.

Alla fine dell’inverno del ’43-’44 nel cuneese – da dove proveniva Revelli – 5000 case erano state distrutte o danneggiate, a cominciare da quelle di Boves, quando il 19 settembre 1943, 23 tra anziani, donne e bambini furono passati per le armi e la città data alle fiamme. Fu il primo eccidio di civili. Il 1944, guardato ancora a ben Ottant’anni di distanza, fu in effetti un anno durissimo per la Resistenza: Fosse Ardeatine, Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto, una lunga estate di stragi. Anche qui, nell’Oltrepò pavese l’estate del 1944 fu un’estate di rappresaglie, dei fuochi dell’Oltrepò: come recita il titolo del diario edito di Annibale Sclavi. Il riferimento ai fuochi nel titolo del libro ricorda la Resistenza da lui combattuta nell’ 87^ Brigata Garibaldina Crespi, ma anche gli incendi che per rappresaglia i nazifascisti appiccavano alle case di chi aveva nascosto o soccorso i partigiani.

E poi c’è un luogo che come molte altre ville tristi sparse per tutta Italia ricorda la durezza dell’occupazione nell’Oltrepò: il castello di Cigognola, sede della Sicherheits, luogo di interrogatori, di sevizie, torture. Nelle pagine del diario di Andrea Damiano, giornalista datosi alla macchia proprio tra le colline dell’Oltrepò dopo aver rifiutato di collaborare con Il Popolo d’Italia, si legge la stanchezza generale di quel 1944:

Pavia, 8 settembre 1944. Due altri bombardamenti hanno distrutto il ponte coperto di Pavia. Aveva 600 anni, ed è finito sotto le bombe inglesi in una giornata d’oro…. Pareva non volesse morire, dovettero venire tre volte per abbatterlo, e quella tenacia delle vecchie pietre è costata ai pavesi altri lutti, altre rovine, perché il tiro dei bombardieri non era esatto. … Dall’8 settembre 1943 è passato un anno, e – continua Damiano – durando il nostro strazio, nulla irride di più che la propaganda degli anglo-americani che vorrebbe essere seria e umana, mentre coi fatti dimostra di considerarci quello che in effetti siamo, un volgo disperso che nome non ha.

Ma proprio dai luoghi in cui anche Damiano si rifugiava, da Varzi, al centro della Valle Staffora, da Zavattarello, nell’alta Val Tidone, la Resistenza volle restituire un nome a quel volgo disperso.

Restituire il nome agli italiani, all’Italia significava appunto riassumersi il peso delle proprie responsabilità. E i partigiani spesso cominciarono da se stessi, rinominandosi, una volta entrati nelle brigate partigiane, quasi come fosse un nuovo battesimo: come Angelo Ansaldi, classe 1921, promotore di una banda nel varzese nel maggio 1944. Era noto con il nome di battaglia Primula rossa, evocativo, forse, delle sue letture adolescenziali, quel ciclo di romanzi scritti dalla baronessa Orczy e che si potevano leggere in Italia a puntate sul romanzo mensile e poi nelle edizioni a basso prezzo della casa editrice Salani.

È proprio da Varzi che riprese la Resistenza dopo l’arresto nell’estate del ’44. Con la liberazione di Varzi nel settembre, l’Oltrepò si affiancò ad altre zone libere: la repubblica partigiana durerà pochi mesi, ma come nel caso di altre esperienze – Montefiorino, Ossola, Alto Monferrato,… – permise nuove forme di partecipazione politica.

La ripresa della parola dal basso si diceva… bene, le zone libere ne furono il laboratorio, così come lo fu lo sciopero generale dei primi giorni del marzo 1944: un momento cruciale di protagonismo popolare, ancora una volta altamente rischioso. La riappropriazione da parte della classe operaia degli spazi del lavoro, della fabbrica non fu a poco prezzo: lo sciopero era rigorosamente vietato e pagato con la deportazione nei campi di concentramento. Ci fu questa volta una cabina di regia politica e il PCI giocò un ruolo importante, tentando anche di coinvolgere gli altri partiti del CLN. I partiti antifascisti, fatti da chi aveva patito il carcere, l’esilio, il confino, furono essi stessi fondamentali scuole di apprendistato alla politica, alla parola discussa e contesa democraticamente; e proprio quelle tensioni, quelle divergenze anche aspre, le differenti idee d’Italia che i partiti antifascisti esprimevano furono indispensabili per riscoprire il senso profondo della democrazia.

Teresa Noce, nome di battaglia Estella, aveva aderito al partito comunista sin dal 1921: per lei nata allo scoccare del secolo in una famiglia proletaria di Torino, gli scioperi del ’43 e del ’44 si inscrivevano in una lunga storia, nel solco delle lotte operaie di inizio Novecento, e proprio su quelle lotte, sulle ingiustizie e sulle feroci repressioni, Estella avrebbe scritto il suo racconto autobiografico dedicato alla gioventù che lotta affinché il sole splenda per tutti. E lei non si era certo risparmiata. Prima di essere arrestata e internata nel lager di Ravensbrück nel 1943, aveva preso parte alla Resistenza francese e prima ancora alla guerra civile spagnola: quando già italiani contro italiani, fascisti contro antifascisti si erano trovati a combattere. Oggi qui (in Spagna), domani in Italia, aveva detto Carlo Roselli – il fondatore di Giustizia e Libertà a Parigi, ucciso insieme al fratello Nello da sicari fascisti in Normandia nel 1937.

E quando toccò all’Italia ci furono anche loro: le donne. Tutte respinte da quel concetto esclusivo ed escludente di patria che il fascismo aveva imposto. D’altronde proprio Giovanni Gentile aveva sostenuto che le donne fossero prive di quell’originalità animosa del pensiero, […] di quella ferrea vigoria spirituale, che sono le forze superiori, intellettuali e morali, dell’umanità. La riforma dell’istruzione del 1923, definita ‘la più fascista’ delle riforme, si inscriveva – è stato osservato – nei binari di un brusco ritorno all’ordine, rimodulando l’istruzione sulla base di rigide differenze sociali e di genere.

Eppure, fra coloro che senz’armi prestarono soccorso ai partigiani, agli ebrei perseguitati e ai prigionieri evasi, ai militari sbandati, c’erano anche donne giovani e non più giovani. Era la Resistenza civile che prendeva forma, non senza fatiche, non ovunque. Per alcune di queste donne agire arrivò in un certo senso prima della parola politica. Pesavano ancora di più su di loro i vent’anni di dittatura fascista, perché s’innestavano su una esclusione secolare delle donne dalla sfera pubblica e dalle politiche di scolarizzazione. Ecco, le scelte di queste donne – magari non del tutto consapevoli e pienamente sistematizzate sul piano politico – si espressero innanzitutto in pratiche concrete. L’apprendistato alla politica passava anche attraverso quei gesti, semplici, quotidiani, ma che pure diventavano politici, si ri-semantizzavano, ri- significavano, da gesti di cura famigliare, individuale, a gesti che acquisivano un senso collettivo: cucire diventava un atto politico quando serviva a rivestire i soldati allo sbando, o quando nascondevano i partigiani dalla vista dei nazifascisti facendo gruppo e coprendoli con le gonne.

La Seconda guerra mondiale e la Resistenza che in essa va compresa fu anche una guerra di parole, la guerra delle onde, com’è stata definita.

Siamo italiani, parliamo agli Italiani era il titolo del programma radio scritto e condotto tra il 1940 e il 1943 da Fausta Cialente per Radio Cairo, che trasmetteva tutte le sere tra le 19 e le 23 dalla capitale egiziana. Per Cialente, scrittrice e futuro premio Strega, collaborare con gli inglesi in funzione antifascista fu, pur tra molte contraddizioni, un’arma che la sorte mi poneva in mano e con quell’arma, astuzia aiutando, sul fascismo avrei finalmente sparato anch’io. L’Egitto non era, come noto, una colonia italiana, ma lì vi risiedeva una cospicua comunità italofona oggetto di una capillare e molto ben orchestrata propaganda fascista che, dall’Egitto, puntava a tutto il Medio Oriente.

D’altronde in quelle comunità il ricordo della guerra fascista d’aggressione all’Etiopia era vivo e fortissimo. Una guerra, quella del 1935-1936 combattuta in totale disprezzo delle regole del diritto internazionale e che basterebbe a demolire il mito degli italiani brava gente, come tanta e seria storiografia ha ormai da tempo dimostrato.

Ad Affile, vicino a Roma, si erge il monumento a Rodolfo Graziani. E se a quasi ottant’anni di distanza ancora il 25 aprile appare materia incandescente nel nostro paese è perché i conti con il fascismo non si sono voluti fare appieno.

Già in Libia Rodolfo Graziani aveva dimostrato che non aveva alcuna remora a usare il pugno di ferro, e proprio in Etiopia avrebbe anzi rivendicato la completa responsabilità della tremenda lezione data al clero a Debra Libanòs. L’Italia di Mussolini in Etiopia fece un salto di qualità – ha scritto con efficacia Angelo Del Boca – L’Impero italiano d’Etiopia si stava rivelando un immenso laboratorio, dove un popolo così detto civile manifestava i suoi istinti più bassi e sperimentava su larga scala tecniche di genocidio: il “radicale ripulisti” ordinato da Mussolini in seguito all’attentato a Graziani nel febbraio 1937 si sarebbe trasformato in una truculenta caccia all’uomo contro la popolazione inerme. Un odioso eccidio.

Era proprio contro quell’Italia che la Cialente desiderava levare la sua voce via radio, legando la sua battaglia antifascista alla lotta anti-imperialista, additando le leggi razziali antisemite del 1938 in Italia – avallate dal re Vittorio Emanuele III – e la segregazione razziale nelle colonie che quelle leggi aveva preceduto.

C’è un’altra vicenda poi che collega l’espansione dell’Italia fascista nel corno d’Africa con la penisola e la nostra Resistenza. L’ha ricostruita di recente Matteo Petracci e ha come protagonisti un gruppo di eritrei, somali ed etiopi giunti in Italia per essere esibiti nella Mostra delle terre d’Oltremare, inaugurata dal re, ormai Imperatore, Vittorio Emanuele III il 9 maggio 1940. Dopo l’8 settembre del 1943, alcuni di loro raggiunsero altri internati civili e militari, antifascisti, partigiani che andavano organizzandosi nella cosiddetta Banda Mario operativa nell’area di Monte San Vicino nelle Marche: 8 nazionalità, un microcosmo variegato di lingue e religioni diverse. Anche quegli uomini che la propaganda fascista e nazista aveva definito sotto-uomini, destinati o a essere eliminati o a diventare schiavi e forza lavoro coatta si batterono e morirono per la salvezza propria e dell’Italia tutta.

La Resistenza è un’idea di futuro, di patria diversa non più esclusiva ed escludente: senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche,dicondizioni personali e sociali. Reciterà e recita l’articolo 3 della nostra Costituzione. La Resistenza è la nostra Costituzione. Di quell’internazionalismo partigiano fanno anche parte gli accordi di Saretto di ottant’anni fa, firmati nel piccolo paese dell’Alta Valle Maira nel maggio 1944, tra il delegato del CLN Piemontese Dante Livio Bianco e il comandante della Seconda Regione della Francia Max Juvénal, convinto che la Resistenza c’est la lutte pour la liberté du monde qui s’engage: è la lotta per la libertà del mondo, non solo della Francia, non solo dell’Italia.

Pensare allora a un accordo franco-italiano contro il fascismo e il nazismo come fase preliminare in vista del ripristino delle libertà democratiche e della giustizia sociale in una libera comunità europea, era forse uno slancio utopico. Ma significava essere capaci di guardare, tra il rumore delle armi, a un futuro intensamente desiderato.

E a quel futuro intensamente desiderato – usa queste parole Claudio Pavone nel suo saggio storico sulla moralità della Resistenza – guardavano anche quelle tante iniziative editoriali, di piccole casa editrici che nascevano per esempio qui a Milano sotto le bombe, tra il 1942 e il 1945: spesso di breve durata, ma che dimostrano nella vivacità di quell’esperienza culturale in tempi drammatici lo slancio verso il futuro, il desiderio di pensare anche attraverso i libri la democrazia di domani, per produrre quei lavori che i fascisti non volevano o non riuscivano più a controllare, dopo anni di bavagli e di censure.

Ecco perché la Resistenza è presa di parola dal basso in senso plurale, anche polemico: il polemos è il cuore della città, della Res publica. E proprio il fascismo degli anni Venti aveva iniziato con l’uccidere la parola che dissente, che si oppone, che resiste, e, insieme, a uccidere il corpo di chi quella parola osava pronunciare.

Ferruccio Ghinaglia (ucciso a Pavia nel 1921), Don Giovanni Minzoni (aggredito da due squadristi fascisti nell’agosto del 1923), l’editore ideale Piero Gobetti (morto in Francia nel 1926 quando non aveva neppure 25 anni a seguito dei numerosi pestaggi subiti), e in mezzo la voce e il corpo di Giacomo Matteotti.

Il no di Matteotti, la denuncia dei brogli delle violenze e intimidazioni nelle elezioni dell’aprile 1924, saldano il 1924 al 1944, alle stragi di inermi civili italiani perpetrate dalle SS tedesche con la complicità degli aguzzini fascisti, ma anche alle voci plurali della resistenza, al no degli Internati militari italiani che si rifiutarono di collaborare con le forze armate tedesche e fasciste: nel febbraio 1944, oltre 600mila erano ancora nei Lager sotto giurisdizione della Wermacht.

Resistere significa non essere indifferenti. Significa assumersi il peso della propria parola, delle proprie responsabilità.

Cosa possiamo fare? Che cosa facciamo? Stiamo qui e guardiamo? Si era chiesta Tina Anselmi nel 1944.

E noi, che cosa possiamo fare per noi, per la nostra democrazia? Viva l’Italia! Viva la Repubblica! Viva la Resistenza!