Di don Michele Mosa
Del vento, delle onde, del mare in tempesta.
Del buio.
Della strega e dell’uomo nero.
Di perdere un amico. Di smarrire la strada.
Paure di bambino.
Paure di adulto.
Paura di morire. Ma soprattutto paura di vivere.
È calata la sera, tramontato il sole: perché intraprendere una traversata? Non è meglio cercare un alloggio e un rifugio per la notte?
Già ma il Figlio dell’uomo non ha dove rifugiarsi, quindi partiamo. Attraversiamo il lago e andiamo sull’altra riva.
Paura. La paura più ancestrale: il dio delle forze naturali che provoca la tempesta. O il dio che non osserva lo shabbat e guarisce. O il dio che si fa uomo e cede la sua onnipotenza per un bacio.
Chissà perché abbiamo sempre paura di dio. Chissà perché trasmettiamo questa paura (salvo poi lamentarci se più nessuno crede, si fida e si affida a questo dio).
Del resto, quanti ricatti abitano la nostra pastorale: se non vieni, se non partecipi, se non frequenti…
Mi fa pensare che nella Scrittura l’espressione “non temere” ricorre 366 volte: ogni giorno dio ci ricorda che la paura è una catena mortale: impedisce le relazioni, imprigiona i sentimenti. “Non temere”: dio e l’altro. Non alzare muri. Non giocare sempre in difesa. Non attaccare per principio.
La sera poi mi fa pensare alla morte, a quel fine vita di cui tanto discutiamo ma che cerchiamo continuamente di allontanare da noi e di esorcizzare. La morte non ha casa tra noi: per lei abbiamo costruito – come un tempo le necropoli oltre le mura della città – le case funerarie.
Lasciatemi chiudere con le parole di Alda Merini:
“Amare è rischiare di essere rifiutati.
Vivere è rischiare di morire.
Sperare è rischiare di essere delusi.
Provare è rischiare di fallire.
Rischiare è una necessità.
Solo chi osa rischiare è veramente libero”.