Triste destino, quello dei pubblicani e delle prostitute: da uomini e donne sono diventati modelli negativi di una moralità scaduta ormai a moralismo, di una religiosità scivolata nel formalismo e nell’apparenza, nel predicare bene ma razzolare male, nel puntare il dito sulle difficoltà altrui dimenticando la trave che ci impedisce di vedere. Prostitute e pubblicani sono vittime di una sacralità che ha fatto dei cosiddetti praticanti – e chi è più praticante di me prete – i titolari della perfezione, forse della santità stessa. Pubblicani e prostitute sono quell’umanità che tu puoi guardare dall’alto in basso, che ti fa sentire “migliore”, che ti fa capire che tu hai dei “meriti” e che potrai rivendicare da Dio Padre la giusta ricompensa, pena – come ci hanno insegnato domenica scorsa i lavoratori della prima ora – la fine della giustizia, anzi la morte del Dio giusto, il Dio in cui crediamo che premia i buoni (come me) e punisce i cattivi, cioè pubblicani e prostitute. Pubblicani e peccatori sono l’umanità che ha bisogno di pentimento e conversione, io invece… io prego tutti i giorni, vado a Messa, faccio pellegrinaggi e novene e processioni, faccio pure i fioretti alla Madonna cosa vuoi di più da me Signore? Devo pure andare a lavorare nella vigna? Cioè nella tua, dico, perché nella mia ci lavoro ogni giorno. Prostitute e pubblicani: il sacro è servito su un piatto d’argento. Come la testa di Giovanni Battista. Chiedo a me stesso: non è ora di scendere dal piedistallo? Non è ora di tornare a chiamarci con il nome di battesimo, lasciando perdere titoli e fronzoli vari? Non è ora di rimettere al centro il Vangelo invece del galateo del “santino da immaginetta”? Di più: non è ora di smettere di usare lenti taroccate e deformanti e scoprirci tutti e tutte pubblicani e prostitute? Perché loro, prostitute e pubblicani, che non hanno preziosi consigli da regalare, sanno accogliere in casa, offrire pranzi di amicizia e gioia e rompere vasi che emano profumo di vita. Di vita eterna.
Don Michele Mosa