Abbà, papà. Quanto mi piace questa parola. Forse perché mi fa tornare bambino, forse perché evoca un’atmosfera di famiglia: il cristianesimo mi piace pensarlo come la “religione della famiglia”, del Dio che si fa uomo e cerca casa e vive in famiglia. Abbà poi mi fa assaporare il suono della voce di Gesù: il bambino che gira per la bottega e chiama Giuseppe: abbà. Papà, babbo. E dalla segatura e dalle schegge di legno alla Torah alla Sinagoga al Tempio: da Giuseppe a Dio tutto in una sola parola: Abbà, abbà. Scrive Papa Francesco: «Dobbiamo immaginare che in queste parole aramaiche sia rimasta come “registrata” la voce di Gesù stesso: hanno rispettato l’idioma di Gesù». È una di quelle parole che gli esegeti definiscono “ipsissima verba Christi”, le parole pronunciate da Gesù stesso. Abbà, papà è molto più di un’immagine o di una metafora: facciamo finta che, paragoniamo Dio a… Pronunciando quella parola, che lo Spirito ha posto nel nostro cuore, anzi che lo Spirito stesso pronuncia in noi, noi sperimentiamo di essere uno in Cristo: Capo e corpo. Padre del Capo quindi Padre del corpo: figli nel Figlio. Verrebbe quasi da dire Papà, Babbo recitando la preghiera che Gesù ci ha insegnato ma anche se non lo facciamo con la bocca dobbiamo imparare a farlo con il cuore. Scrive ancora Francesco: «infatti queste espressioni evocano affetto, evocano calore, qualcosa che ci proietta nel contesto dell’età infantile: l’immagine di un bambino completamente avvolto dall’abbraccio di un padre che prova infinita tenerezza per lui. E per questo, cari fratelli e sorelle, per pregare bene, bisogna arrivare ad avere un cuore di bambino. non un cuore sufficiente: così non si può pregare bene. Come un bambino nelle braccia di suo padre, del suo papà, del suo babbo». Abbà: il Vangelo in questa sola parola. Chiedo per me e per tutti voi, per ogni battezzato il dono di sentirsi figli per poter davvero guardare Dio chiamandolo Abbà, papà, babbo.
Don Michele Mosa