È questa la direzione verso cui ci invita a camminare l’Avvento. Non è il Natale se per Natale intendiamo la celebrazione della nascita di Cristo: e non mi riferisco allo svuotamento consumistico e commerciale di quel giorno, ma al fatto che non si attende la nascita di Qualcuno dopo che questa è avvenuta. Se ne fa memoria, la si commemora – dice il Martirologio – non la si attende. Cosa allora si attende? La venuta di Cristo, la sua seconda venuta. La venuta nella gloria con gli angeli e i santi. Si attende la Parusia. Attendere è però una dimensione che non attraversa la nostra vita: si fatica a pensare di avere un passato e il futuro è più che un’incognita. Resta solo il presente: l’oggi che ha spesso il sapore amaro della croce, senza senso. Eppure, senza questa attesa il cristianesimo è vuoto. È poco più che aria fritta. Di cosa è fatto il tuo cristianesimo? Di cosa ti nutri? Di preghierine e fioretti per ricevere il premio dei servi ossequiosi? Dell’osservanza dei comandamenti e delle buone opere per meritare la medaglia del vincitore? Un cerchio chiuso in se stesso: non è Vangelo questo. Il Vangelo è linea aperta. È freccia lanciata all’orizzonte. Il cristiano vive nell’attesa di un incontro non di una premiazione. Non partecipa a una gara. Va a casa di un fratello che lo aspetta. Questo è Avvento: attesa di un incontro. Non di un fiocco azzurro. Non è un caso che Ignazio Silone, questo grande cristiano, a chi gli chiedeva perché non entrasse a far parte della chiesa, dal momento che aveva ritrovato una fede profonda in Gesù e nel Vangelo, rispose: «Per far parte di quelli che dicono di aspettare il Signore, e lo aspettano con lo stesso entusiasmo con cui si aspetta il tram, non ne vale la pena!».
Don Michele Mosa