di Mirko Confaloniera
Fare sport nella mia città è difficile (non lo metto in dubbio). Ma provare a seguirlo, credetemi, non è da meno. Fino a poche settimane fa tifavo (il tempo passato è d’obbligo) una squadra di basket, che non ha mai voluto (ri)chiamarsi “Pallacanestro Pavia” per espressa volontà (“No, No: il nostro è un nome che va benissimo!” – mi è stato risposto in una conferenza stampa due anni fa). All’epoca sembrava che l’ingresso in dirigenza di una nota politica italiana ci avrebbe catapultato nel basket universale e che saremmo andati nel giro di pochi anni a disputare la Coppa del Sistema Solare su Giove. Solite illusioni, ovviamente, ma a Pavia ci siamo abituati: basta vedere cos’è successo al mondo del calcio non molti anni or sono, con la gestione “cinese”: si parlava di serie B, di serie A, di coppe europee, che saremmo diventati un nuovo Parma della bassa pavese, che avremmo avuto un nuovo stadio da 20 mila posti ecc. ecc.. Risultato: a oggi, squadra a metà classifica di Eccellenza (quinto livello nazionale) e che quest’anno non riuscirà a salire manco in serie D, nonostante le promesse, nonostante abbia ripagato gli enormi debiti pregressi di gestioni precedenti, nonostante la società sia stata umiliata ed esiliata dal Comune per un lungo anno a giocare in un’altra provincia, nonostante ogni giorno subisca quella maledetta mentalità pavese del culto del proprio orticello, che anziché unire le forze, al contrario accentua le divisioni, le moltiplica, eleva alla potenza della potenza stupide rivalità fra quartieri, squadre della stessa Pavia, dei sobborghi e limitrofi, che faccia prendere coraggio spavaldo a gente che non sa manco cos’è stato fare i playoff contro un Mantova o un Monza dentro a un “Fortunati” tutto esaurito e che viene nel nostro stadio (un campo che ha visto squadre come Genoa, Spezia, Sampdoria, Atalanta, Juventus, ecc…) a fare le partite della vita, perché fa sentire loro fighi e meno frustrati battere un Pavia Calcio 1911. Parliamo di basket? “Tu non entri, perché noi siamo i padroni!” mi è stato rinfacciato pochi giorni fa. Testuali parole al termine di un battibecco che forse anche in un campetto di Terza Categoria provinciale di calcio minore sarebbe stato di uno squallore unico, mentre qui siamo in serie B, la terza divisione nazionale di uno sport che a Pavia ha messo le radici nel lontano 1933, ha visto 21 partecipazioni in massima serie, giocatori finiti in Nazionale maggiore e trofei caduti nel dimenticatoio. E voi dov’eravate nel 1996 quando io iniziavo a venire a vedere il basket in questo stesso palasport?: qui solo silenzio, lo stesso che segue ad altre mille domande, del tipo dove si era nel 2010 quando la vecchia Pavia chiedeva aiuto per sopravvivere e (non ricevendoli) chiudeva i battenti cedendo il diritto sportivo di serie A2.
La Motonautica restava quell’ultimo spiraglio di riscatto sportivo e sociale per una città che in meno di 15 anni ha perso tutto: una serie C di calcio di alto livello, una A2 stabile di basket e una A1 trasognante di volley femminile. Tutto perduto, tutto scomparso, quasi da un giorno all’altro, tipico di questa città che fa e disfa a piacimento di chi al momento occupa stanze dei bottoni o siede sulle poltrone di comando. Il “Raid” Pavia-Venezia, tornato dopo 10 anni di sospensioni per svariati motivi, poteva e DOVEVA essere un momento, un unico giorno, un unico istante di rilancio, valido per tutti gli altri 364 dell’anno, per una Città che ormai non ha più NIENTE a livello sportivo e che, sinceramente, nonostante le buone fedi e le buone intenzioni di chi tira avanti le carrette, si inizia a dubitare fortemente non potrà più riaverne. Un’unica cosa: il passaggio di bolidi di F1 e altri mostri della motonautica sotto i nostri ponti, solo per il semplice gusto di aggregare un po’ di persone, far lavorare qualche bar, e ribadire che – NONOSTANTE tutto – siamo ancora una città legata ai suoi sport fluviali, un rapporto che dura da decenni e decenni. Manco quello. Niente da fare. A cinque giorni dal “Raid”, dal riscatto sociale di una città sempre più povera, sempre più disagiata, sempre più con meno cose da offrire ai suoi abitanti e ai tanti ancora studenti universitari che arrivano da ogni angolo della nazione, ci si accorge che il livello delle acque di Ticino e Po sono “troppo” bassi per pluricampioni di F1 abituati a prove più impervie. Il “Raid” Pavia-Venezia partirà da Piacenza. Un po’ come se l’anno prossimo la classica di ciclismo Milano-San Remo partisse da Genova. Stessa allucinante logica. Ci saremmo accontentati di una simbolica sfilata sotto i nostri ponti, mentre domenica mattina sarà già tanto, invece, se vedremo qualche pescatore che di buon’ora uscirà con la sua bassboat con la vana speranza di andare a pesca di qualche luccioperca, invece dei soliti incommestibili pesci-siluro che infestano da anni il Po. E il tutto con il silenzio-assenso dei nostri grandi amministratori, che non hanno battuto ciglio alla decisione dell’ultimo momento di rinviare il tutto al 2022. Pavia. Una città che avrebbe mille potenzialità. E che invece, è gestita, amministrata, calpestata, umiliata, ecc., da gente che la usa solo per fare vetrina ai propri nomi e ai propri vacui poteri temporanei.
Sarà anche difficile “fare” sport in questo contesto, ma credetemi, lo è ancora di più seguirlo e soprattutto parlarne e raccontarlo. Io credo che non abbia più senso provarci: il provarci per raccontare, il cercare di entusiasmare, il tentare di ricordare per emozionare. Io credo che sia meglio finire qua, perché tanto a Pavia a nessuno interessa di Pavia, ma preme soltanto la propria immagine e il proprio marchio da sfoggiare come in una bella vetrina di Corso Cavour. Vi lascio con un’ultima bellissima fiaba, la troverete venerdì mattina sulle pagine cartacee del settimanale “Il Ticino”: vi parlerò, come se nulla fosse, di un raid di motonautica che domenica mattina partirà da Pavia e arriverà a Venezia, con cento e passa barche iscritte, e sarà tutto bello e meraviglioso come una volta, e sarà tutto bello e meraviglioso come volevamo riviverlo un’ultima volta prima di lasciarci andare. L’ultimo sogno di una città malata e moribonda, un sogno che farà appena dopo aver chiuso gli occhi per sempre e che non si sveglierà mai più.