Due soli pensieri: il primo riguarda i discepoli di Gesù, il secondo i discepoli di Gesù. E non ho sbagliato, ve l’assicuro. Infatti, annuncio e ascolto sono le due dimensioni del discepolo, le due facce della stessa medaglia: le guardi una volta ma non puoi separarle. O perlomeno è rischioso. Perché «l’opera della vita attiva – scriveva Tommaso d’Aquino – che deriva dalla pienezza della contemplazione, come l’insegnamento e la predicazione […] è da anteporre alla semplice contemplazione. Infatti, come è meglio illuminare che non semplicemente brillare, così è meglio comunicare agli altri ciò che si è contemplato che non contemplare soltanto». La missione della Chiesa – lo ricorda il Concilio Vaticano II – affonda le sue radici nella missione del Figlio e dello Spirito Santo, secondo il piano di Dio Padre (cfr. “Ad gentes” 2). È dunque più di un dovere o di una necessità: è la vita stessa della Chiesa e del discepolo: «guai a me se non annunciassi il vangelo», confessa Paolo. Evangelizzare però significa attenzione all’altro, sforzo di inculturazione, empatia direi: non si ferma cioè alla sola sfera razionale, non si limita – non può farlo – alla sola volontà. E non è frutto di ascesi. È relazione, cioè è coinvolgimento di tutta la persona. In poche parole: devi farti coinvolgere, anche affettivamente. L’incontro con l’altro deve emozionarti. (Come puoi testimoniare l’amore di Dio, meglio il Dio-Amore se hai paura dei sentimenti? Se sei rigido come un manico di scopa e freddo come il ghiaccio?). Mi ha colpito un’osservazione del frate domenicano Francisco de Vitoria, vissuto nel sec. XVI, a proposito della predicazione dei suoi confratelli agli Indios d’America: non basta annunciare il Vangelo, bisogna che gli Indios lo capiscano – c’è per esempio la questione della lingua e della cultura – e poi devono vedere discepoli innamorati di Cristo non “mercenari” al seguito di un esercito conquistatore. Le due facce del discepolo, inseparabili: annuncia ciò che crede, crede ciò che annuncia. Questa è l’obbedienza della fede. Non un’obbedienza cieca e assoluta: Dio non ama avere cortigiani intorno a sé e men che meno possedere schiavi. Dio – e Gesù ce l’ha spiegato a parole e raccontato con la sua vita – preferisce legami d’amicizia: basta pensare alla casa di Marta e Maria, al clima di distensione e di famiglia che lì vi si respira, anche nei momenti tragici della morte di Lazzaro. Ma perfino Giuda nel Getsemani è “ancora” amico. Dio, il Dio di Gesù Cristo ama e coltiva la libertà di chi vive con lui. Non ordina mai; il suo parlare è sempre una proposta: «se vuoi…». Obbedienza è prima di tutto, soprattutto e – lasciatemelo dire – ascolto e dialogo. Obbedienza: “ob- audire”, tendere l’orecchio. “la fede nasce dall’ascolto” (Rm 10,17). «Shemà Israel, Ascolta, Israele» (Deut. 6, 4-9): la memoria che si fa preghiera di un intero popolo. E diventa – commenta il rabbino tedesco Samson Raphaël Hirsch – testimone oculare perché ascolta e vede – di Dio. Nella stessa linea la “Regola” di San Benedetto inizia con l’invito: «Obsculta fili; Ascolta, figlio». Obbedire è infatti Ascoltare. Allargando la visione di Benedetto, dom Jean-Marc Thevenet, abate emerito d’Acey, dice: «Sapendo che in latino i verbi “obbedire” e “ascoltare” hanno la stessa radice, si capisce che per san Bernardo e tutta la tradizione monastica l’obbedienza sia prima di tutto un “ascolto”. Ascolto di Dio nella sua parola e negli avvenimenti perché Dio parla sempre e in ogni circostanza». Quindi, non separare mai l’annuncio del Vangelo dal suo ascolto e dalla sua messa in pratica: proviamoci almeno. Ne va del nostro essere discepoli di Cristo.