La Sacra Scrittura di domenica 1° novembre

Il commento di don Michele Mosa. «Noi fin d’ora siamo figli di Dio»

Molto più di un’immagine, come voleva l’autore della Genesi. Siamo FIGLI non “RITRATTI”. Ci ha voluti. Desiderati. Attesi. Accolti. Ci ha amati, da sempre e per sempre. Figli non semplici creature. Viene dal suo cuore non dalla sua potenza. Certezza della fede: Io, Tu, Lei, ogni uomo e donna sono usciti dalle sue mani, sono custoditi dalle sue mani; poi c’è la vita, lo scorrere quotidiano dei tempi e delle stagioni: mi sento figlio, vivi da figlia? Scriveva p. Ernesto Balducci: «Sono molte le occasioni (vorrei dire, ogni giorno è un’occasione!) per mettere alla prova la nostra fede nel Dio di Gesù Cristo. Perché da una parte la fede porta con sé la sicurezza, in mille modi ribadita dal Vangelo, che il nostro Dio è Padre, che i capelli del nostro capo sono contati: nessuno ne cade senza che Egli lo permetta. Egli veste i fiori dei campi, nutre gli uccelli del cielo. Credere significa affermare questa paternità che investe tutte le creature di tenerezza senza confine. Dall’altra – è parola del Vangelo – questo Dio noi non lo conosciamo. Solo il Figlio lo conosce, proprio quel Figlio che nell’ora della sua tribolazione non fu esaudito: Egli bevve il calice. Ecco l’antinomia profonda della fede, che rimane anche oggi quella fu, senza potersi mai chiedere in una pacifica sintesi». Sintesi che obbliga a una sosta prolungata e a una quanto mai delicata (e imbarazzante?) domanda: è sufficiente questa rivelazione di Vangelo per poter dire di conoscere Dio? E – inevitabile e logica conseguenza – l’uomo? Continua Giovanni: «ciò che saremo non è stato ancora rivelato». Perché Egli non si è ancora manifestato. Nessuno l’ha visto. In altre parole: se non vedi il Padre come fai a dire che l’uomo o la donna che ti sta di fronte gli assomiglia? È stato/stata da Lui generato? Da domanda a domanda: e se invece bisogna fare il percorso inverso? Se bisogna risalire dal Figlio o dalla figlia al Padre? «Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre?» (Gv 14, 8-9). Continua p. Balducci: «Le due conoscenze sono legate intimamente. E del resto è questa l’originalità del Vangelo. Di Dio tanti han parlato e tanti parlano. Saremmo stolti se dicessimo che il discorso su Dio è una specialità del Vangelo. Affatto. Anzi, il Vangelo, forse ne parla meno di altri libri sacri. La novità del Vangelo è che unisce in modo indissolubile i due discorsi. Dico due discorsi per dire i due misteri. “Noi non sappiamo, dice Giovanni, quello che saremo”. Intanto il Vangelo ci obbliga a riconoscere il mistero che è quotidianamente dentro di noi. Ed è il divario tra ciò che saremo e ciò che siamo. La fede ci obbliga a porre in avanti la nostra essenza, la nostra verità, proiettandola nel futuro, e scavalcando anche quel luogo di identità terribile che invece sembrerebbe perentorio, che è il cimitero. Uno potrebbe dirmi – e non avrei niente da obiettare –: sappiamo quel che saremo, lo sappiamo bene; ci sono le tombe che parlano!». Avere fede è – ne sono convinto – scommettere sull’incerto futuro: non sappiamo cosa saremo. Come un padre non sarà cosa sarà suo figlio domani, fra dieci cento mille giorni… L’unica certezza è il loro legame: ti sono padre mi sei figlio/a. Fede è allora saper ospitare questa relazione. Farla crescere. Fede è “farsi cullare” dalla tenerezza e dalla forza dello Spirito, Colui che dona la vita. Fede è apertura al mistero che abita Dio e l’uomo/la donna. Perché – diceva don Tonino Bello – «se la fede ci fa credenti, la speranza credibili, è la carità che ci fa creduti».

 

Don Michele Mosa