Riprendiamo il cammino e – regalo straordinario della Provvidenza – lo facciamo accogliendo il suggerimento, quanto mai prezioso, di Paolo: non estraniarti dalla realtà ma, così come il tuo Maestro, “discendi in essa e incarnati”.
Il testo è davvero intrigante: affascina e stimola e soprattutto provoca la vita. Si tratta di culto, del vero culto a Dio che, proprio per essere tale, deve uscire dalla gabbia spirituale, anzi spiritualista, e realizzarsi con il corpo. Nella quotidianità. I biblisti sanno quanto sia insidiosa la lettura e la traduzione di queste parole:
- Misericordia, cioè viscere materne,
- Sacrificio, in realtà Paolo parla di vittima;
- Spirituale, “λογικὴ”: il vero nocciolo della questione.
Non entro in merito all’esegesi.
Offro solo alcuni spunti, sperando ci possano aiutare a riprendere il cammino del nuovo anno pastorale. Un cammino che non può semplicemente ripartire da dove ci siamo fermati: non è cambiato qualcosa, non basta aggiustare il tiro. Bisogna – almeno credo – tornare (purtroppo l’abbiamo dimenticato o dato per scontato) a lasciarci provocare dalla realtà. Dagli uomini e dalle donne che vivono con noi. Bisogna scendere dalle cattedre e dai piedistalli e “incarnarci” di nuovo. Come Gesù.
Innanzitutto, l’orizzonte: la misericordia. Cioè la tenerezza. È lo sguardo della mamma non quello del giudice. È il chinarsi sull’altro non il pretendere che l’altro salga fino a noi. È il prendere in braccio non il farsi portare. Misericordia è – ma posso certamente sbagliare – l’altro modo di dire missione. È aprire il cuore: andare incontro all’altro. Accogliere è ancora troppo poco. Poi c’è il sacrificio, anzi la vittima. Una vittima viva, che dona vita senza versare il proprio sangue. Spiegava Benedetto XVI: «Nell’uso corrente questo termine fa parte di un contesto sacrale e serve a designare lo sgozzamento di un animale, di cui una parte può essere bruciata in onore degli dèi e un’altra parte essere consumata dagli offerenti in un banchetto. Paolo lo applica invece alla vita del cristiano. Infatti egli qualifica un tale sacrificio servendosi di tre aggettivi. Il primo – “vivente” – esprime una vitalità. Il secondo – “santo” – ricorda l’idea paolina di una santità legata non a luoghi o ad oggetti, ma alla persona stessa dei cristiani. Il terzo – “gradito a Dio” – richiama forse la frequente espressione biblica del sacrificio “in odore di soavità” (cfr Lev 1,13.17; 23,18; 26,31; ecc.)».
Infine – ed è la parola più impegnativa da spiegare – “spirituale”. «I commentatori del testo – è ancora Benedetto XVI – sanno bene che l’espressione greca (τὴν λογικὴν λατρείαv) non è di facile traduzione. La Bibbia latina traduce: “rationabile obsequium”. […] La consueta traduzione italiana “culto spirituale” non riflette tutte le sfumature del testo greco (e neppure di quello latino). In ogni caso non si tratta di un culto meno reale, o addirittura solo metaforico, ma di un culto più concreto e realistico – un culto nel quale l’uomo stesso nella sua totalità di un essere dotato di ragione, diventa adorazione, glorificazione del Dio vivente» (Benedetto XVI, Udienza generale, mercoledì, 7 gennaio 2009).
Il culto cristiano non è “relegabile” nelle chiese: investe tutta la persona, in ogni dimensione della sua vita: questo è il culto “appropriato”, cioè “logico e razionale”. È l’offerta di tutto se stesso, della propria mente, delle proprie azioni, della propria volontà, del proprio corpo…, tutto deve essere presentato a Dio. Non esiste alcun aspetto dell’esistenza umana che possa essere tralasciato dal culto cristiano, perché tutta la persona (anche nella dimensione corporale!) possa essere trasformata, per grazia dello Spirito, in un “culto” vivente e santo. “La separazione tra sacro e profano sparisce”, così come quella tra puro e impuro… tutto è liturgia e azione di culto da presentare a Dio. Incarnazione non spiritualismo. Vita non formule. Persone non personaggi. O addirittura statue. Serve – come ci ricorda Papa Francesco – una profonda conversione personale e pastorale.
Don Michele Mosa