Di Mons. Corrado Sanguineti (Vescovo di Pavia)
Mi è capitato più volte, nell’anno in cui risiedevo a Gerusalemme per studio (1992-93), di partecipare alla “Via Crucis” che ogni venerdì parte dal monastero della Flagellazione, in Via Dolorosa, e raggiunge la basilica del Santo Sepolcro, terminando nella cappella del Golgota: generalmente i frati francescani che animavano la preghiera, insieme allora ai molti pellegrini – oggi scomparsi a causa della situazione di tensione e di guerra tra Israele e territori dell’autonomia palestinese (Striscia di Gaza e Cisgiordania) – guidavano la “Via Crucis”, passando nelle strade del quartiere arabo della Gerusalemme antica, in mezzo ai negozi, a tante persone che continuavano indifferenti le loro attività. Probabilmente, quando Gesù percorse la strada verso il Golgota, portando la sua croce da condannato, fece un’esperienza simile: alcuni partecipavano al cammino di questo preteso messia, questo strano maestro proveniente dalla Galilea, ma molti erano assolutamente indifferenti, per loro era uno spettacolo usuale vedere qualche condannato al supplizio della crocifissione passare per le vie della Città Santa, carico del suo patibolo.
La scena realistica della “Via Crucis” di Cristo, che durante il Venerdì Santo si rinnova in ogni chiesa del mondo, spesso per le strade e per le piazze, mi è venuta alla mente pensando ai giorni che stiamo vivendo. Tutti corriamo il rischio di rimanere indifferenti a Cristo che prolunga la sua passione nella carne sofferente di tanti fratelli uomini, nel mondo, vicini e lontani, e quasi non ci lasciamo più ferire e scandalizzare da certe immagini di violenza e di desolazione, come quelle che ci provengono dall’Ucraina, da Gaza, dal Myanmar devastato dal terremoto, dall’isola di Haiti, dominio quasi incontrollato di bande che seminano morte e terrore, oppure dalla vista di migranti ammassati in gabbie, come accade negli Stati Uniti, o ammanettati, come delinquenti, per essere portati dalla nostra Italia ai centri di raccolta in Albania. Facciamo l’abitudine a tutto, ci chiudiamo nel nostro piccolo mondo, nel nostro comodo benessere.
Ma possiamo chiudere gli occhi e il cuore anche su chi soffre vicino a noi, nelle nostre città e paesi: senza tetto, che restano per molti soggetti invisibili, le famiglie in povertà e in grave marginalità, gli adolescenti fragili ed esposti a forme di disagio, di solitudine e anche di devianza, i giovani schiacciati da una logica impietosa e disumana di prestazioni richieste e di competizione.
Spesso, questa indifferenza che rende arido il cuore, è il frutto amaro di una vita ripiegata su se stessa, dove tutto deve ruotare intorno all’io, sempre più pensato in modo autoreferenziale e individualistico, e di una grave assenza di speranza, nel guardare al futuro.
Una promessa grande per la vita
Eppure, senza la forza e il soffio della speranza, come apertura positiva alla realtà e capacità di intercettare i segni di bene e i germogli di vita che ancora abitano tra noi, noi umani non viviamo, sopravviviamo e facilmente diventiamo sordi e ciechi davanti alla realtà, alle sue sfide, ai bisogni immensi che segnano l’esistenza di uomini e donne come noi.
Così la Pasqua che si avvicina, se non è ridotta a un rito formale o semplicemente a pochi giorni di vacanza, da riempire con qualche viaggio o gli ultimi scampoli della stagione sciistica, può essere un’occasione per lasciarci di nuovo toccare e ferire da ciò che caratterizza il nostro presente, partendo dalla riscoperta di un annuncio carico di bene e di una promessa grande per la vita.
Più di duemila anni fa, nella città di Gerusalemme, quell’uomo, Gesù di Nazareth, condannato alla morte infame della croce, deriso da molti, amato e compianto da un piccolo gruppo di uomini e donne, caduto nell’oblio e nell’indifferenza di tanti, si manifestava nuovamente vivo ai suoi discepoli, alle donne che per prime, all’alba della prima domenica della storia, avevano trovato il suo sepolcro vuoto e avevano ricevuto il grande annuncio: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato”. Da allora, di generazione in generazione, questo annuncio percorre il mondo e la forza della risurrezione, la possibilità di una rinascita attestata nella vita di uomini e donne di ogni tempo, si fanno presenti, come sorgente di speranza.
La risurrezione di Cristo e la vita nuova che da lui si diffondono attraverso il volto e la carne dei suoi testimoni, dai primi apostoli fino ai santi dei nostri giorni, come il giovane Carlo Acutis, che sarà canonizzato domenica 27 aprile durante il Giubileo degli adolescenti, sono all’origine di una speranza invincibile, che può sostenere e attraversare anche lo scandalo e lo scacco della morte.
Così la risurrezione non è qualcosa che si dimostra, come nelle scienze empiriche, è qualcosa che s’incontra: un annuncio, una testimonianza, una vita che rifiorisce ora, spesso in esistenze ferite e travagliate, dove tutto sembrava perduto.
E il frutto primo di una vita risorta è un cuore nuovo, vivo, un cuore di carne che sa amare, che non resta indifferente di fronte alla sofferenza del mondo, che si lascia ferire dai bisogni dei fratelli, che ovunque, anche là dove sembra vincere il male, sa porre segni, a volte fragili, di speranza. Come accade oggi a Gaza, in Ucraina, nel Myanmar, ad Haiti, o a Pavia, nei nostri quartieri nei nostri paesi, nella nostra Italia.
Mentre oscilliamo tra indifferenza e speranza, almeno desiderata e ricercata, c’è una presenza di bene che dall’alba di Pasqua non smette d’incrociare i cammini della vita degli uomini. Buona Pasqua a tutti!