Di don Michele Mosa
Una stalla e non una reggia.
Pranza con peccatori e prostitute.
Perdona e non condanna.
Apre le porte del suo regno a un ladro.
Basta?
Per dire che non sto parlando di Dio, direi di sì.
O perlomeno non è il dio che abbiamo in mente noi, che predichiamo onnipotenza e amiamo fumi di incenso e cerimonie fastose.
Io non ho nemmeno dove dormire stanotte: parola di Gesù.
Proprio di quel Gesù di cui diciamo di essere discepoli. E testimoni.
Ma: come può un ricco parlare di povertà?
La piramide rovesciata – come si usa dire oggi negli ambienti ecclesiastici – non basta più. Non si tratta di scambiare i ruoli (cosa che il Sinodo forse ci fa sospettare): la retorica del potere come servizio ha fatto il suo tempo.
Si tratta, penso, di cambiare totalmente la prospettiva: dio si è fatto uomo.
E basta – lo dico ad alta voce – con la canzone che ci siamo protestantizzati perché usciamo dai fumi del sacro.
Et Verbum caro factum est.
Quindi avevo fame, avevo sete, ero malato…
Non sto cancellando la preghiera e la relazione personale/comunitaria con il Padre: vorrei ritrovare la spiritualità del Vangelo, senza fronzoli inutili. Anzi dannosi.
Ho bisogno di scandalizzarmi di dio, di questo dio per non ricadere nella logica del paganesimo e del sacro.
Ho bisogno di ritrovare l’abbraccio di Cristo; l’abbraccio di un dio qualsiasi non mi dice nulla.
Ho bisogno di scandalizzarmi di dio.
Di inciampare in Lui per scoprire che Lui, la pietra scartata dai costruttori, è la scelta del Padre.
Lo scandalo è l’unica arma che abbiamo per difenderci da noi stessi. E dalla nostra idea di dio.
Scandalizzarsi è conversione continua e quotidiana.