“L’8 settembre di ottant’anni fa”: dialogo con il prof. Pierangelo Lombardi

La riflessione su una delle pagine più drammatiche della storia italiana

                                                                       Di Giancarlo Bertelegni

 

Sono passati 80 anni dalle vicende terribili dell’8 settembre 1943, quando venne comunicato alla radio l’armistizio firmato con gli alleati. Per avere un ulteriore chiarimento, su questo evento  storico, ho incontrato il prof. Pierangelo Lombardi (nella foto, ndr), per tanti anni ricercatore e docente di storia contemporanea all’Università di Pavia. E’ stato anche relatore, lo scorso 19 settembre al Collegio Ghislieri, di un convegno  che ha avuto come tema: “8 settembre 1943: 80 anni dopo”.

“Ci sono, nella vicenda di un popolo, momenti e date che vanno al di là dell’episodio contingente cui si riferiscono per assumere, nella memoria collettiva, valenze e significati ben più ampi. Così è per l’8 settembre 1943 – spiega il prof. Lombardi -. Tanto ha, infatti, agito – e continua ad agire – sugli italiani e sulla loro memoria collettiva il ricordo di quella giornata drammatica. Il vuoto istituzionale creato dall’8 settembre caratterizza il contesto in cui gli italiani furono chiamati a scelte alle quali molti di loro mai pensavano che la vita potesse chiamarli. Otto settembre, dunque, non solo come dramma, ma come sinonimo di un ‘nuovo inizio’, di incontri, di scelte, di capacità di decidere, dopo un ventennio di passività di fronte al dominio fascista. Sinonimo di riscatto e di assunzione personale e diretta di responsabilità, perché con l’occupazione tedesca e la nascita della RSI la scelta dovette esercitarsi fra una disobbedienza dal prezzo sempre più alto e le lusinghe di una tetra normalizzazione nazifascista”.

“La guerra, trasmettendosi a cerchi concentrici su territori sempre più ampi e lontani – continua lo storico pavese -, raggiunge le località più periferiche. Poi, l’occupazione tedesca, la RSI e la Resistenza spostano drammaticamente il centro degli eventi bellici fino ai paesi, alle frazioni e ai centri più sperduti e lo moltiplicano a dismisura, aprendo fronti nuovi ed angosciosi che arrivano fin sulla porta di casa. Il tema della ‘scelta’ investe così individui e comunità. Ne viene fuori un mosaico complesso e articolato, dove quel che sarà la resistenza armata rappresenta solo un momento, pure centrale e fondamentale, ma non esclusivo. Anzi, senza quel mosaico ne esce addirittura impoverita. Se anche a Pavia «l’aria di Salò» comincia a spirare un paio di giorni dopo l’armistizio, quando i primi neofascisti compaiono in Strada Nuova dietro la scia dei carri armati e dei mezzi corrazzati tedeschi (come testimoniano le memorie di Carlo Milani, futuro sindaco della città), già la scossa del 25 luglio, con il clima di euforia e di semilibertà, aveva consentito all’antifascismo pavese di riannodare, in città e in provincia, le proprie fila, e pur in quel clima di ambiguità, equivoci e incertezze del momento, si erano intensificati contatti personali che avrebbero favorito, fin dai primi giorni di ottobre, le condizioni per la costituzione del primo CLN pavese”.

“Ma altri sarebbero stati attori e protagonisti di quelle settimane – spiega il prof. Lombardi -. Le centinaia di soldati sbandati che, rifugiandosi sulle nostre colline o nei boschi di Po, avrebbero costituito le prime bande partigiane o, ancora, tra i tanti attori individuali e collettivi, protagonisti a vario titolo, ci sono le migliaia di ex prigionieri di guerra liberati dai campi nei quali erano stati rinchiusi. La loro è, immediatamente, una situazione difficile e pericolosa. Subito comincia la caccia di tedeschi e fascisti nei loro confronti – una caccia che continuerà fino agli inizi del ’45 (nei manifesti tedeschi la consegna di un prigioniero inglese o americano vale 1.800 lire!) -; dall’altra, sempre nei loro confronti, si fa strada un moto di simpatia e di solidarietà diffusa, capace di tradursi in azioni di aiuto conseguenti, anche se gravemente rischiosi per chi li mette in atto, ma capace, infine, di alimentare l’azione cospirativa complessiva in contrasto con lo stato neofascista. L’esistenza di una vasta rete di campi minori afferenti al Campo di lavoro 146 di Mortara caratterizza la presenza, anche in provincia di Pavia, di un ampio moto di solidarietà che ne evidenzia immediatamente, prima ancora che prendano forma precise strutture organizzative, la dimensione ‘metapolitica’, nutrita di gesti semplici e immediati, di indignazione spontanea, di spirito evangelico, di coerenza morale, nella suggestione di un ampio ventaglio di storie. Una solidarietà che le nostre genti dimostrano anche ai tanti soldati sbandati in fuga dai tedeschi e dai futuri bandi di arruolamento fascisti”.

“E’ importante sottolineare che ancor’oggi considerare l’8 settembre come mera tragedia o come l’inizio di un processo di liberazione è una linea che distingue interpretazioni di opposte sponde – riflette ancora il docente pavese -. Soltanto pochissimi fascisti considerarono allora la catastrofe un atto liberatorio. Per loro il ricordo dell’8 settembre rimarrà sempre come un incubo. Per chi, invece, decise di opporsi al fascismo e al nazismo quel giorno assunse connotati di segno opposto. Il senso tragico della vita si univa a un’inebriante gioia del vivere. La varietà di motivazioni individuali fu molto ampia: chi riteneva insopportabile un mondo divenuto teatro di ferocia; chi decise di ribellarsi ai soprusi remoti e vicini; chi era spinto da un istinto di autodifesa; chi univa amore per il rischio e spirito di avventura; chi riscopriva le tradizioni familiari e un antifascismo di vecchia o nuova data; chi era spinto da amor di patria o da odio di classe. Sono motivazioni che spesso si intrecciano l’un l’altra, ma, comunque motivate, si iscrivono in un clima di entusiasmo morale fino ad allora sconosciuto, in una luce sconosciuta di disobbedienza critica, di massa (un fatto assolutamente nuovo per una generazione che fin dalla scuola elementare era stata educata alla virtù dell’obbedienza acritica !)”.

«L’8 settembre  – ci ha ricordato Luchino Dal Verme (il comandante “Maino”) in una delle sue tante, straordinarie testimonianze – è stata la misura di tutti i non valori nei quali eravamo vissuti. Tutto era allora in discussione: il giuramento, la fedeltà al re, le stellette, l’ordine militare, il Paese. Crollano i miti e ci si trova senza sicurezza. Ci siamo trovati di fronte a tre scelte: obbedire ai tedeschi (per paura); seguire il proprio interesse; non cedere al compromesso. Di fronte alle tre scelte (la paura, l’interesse, il coraggio) chi scelse e accettò di portarsi su una linea di pulizia, di non fare compromessi, di farsi prima di tutto libero dalla paura, comprese la situazione. Difficilmente la scelta dell’impegno fu la scelta del meno peggio. Era una risposta definitiva, si era ribelli all’ipocrisia e al compromesso».