Non è questione di paradiso e inferno, non si tratta dei novissimi. Non è un trattato di teologia dogmatica – cosa a cui spesso riduciamo la fede – ma di un incontro. Di qualcuno che arriva e di qualcuno che attende quell’arrivo. Non è una lezione da dare e ricevere, è un’esperienza – desiderata e cercata – da vivere. Così Paolo, così la prima comunità cristiana guarda al proprio futuro: un andare verso. Di Cristo verso gli uomini – “parousia” la chiamano gli esperti –, degli uomini verso Cristo. Anzi per essere ancora più precisi: si tratta di un ritorno: il ritorno del Maestro, del Salvatore, di Cristo Signore. Esemplari in questo, a mio parere, sono i racconti che narrano l’incontro (gli incontri) con il Risorto: è sempre lui, Cristo, ad andare verso i discepoli. È lui che li precede. Lui che li accompagna. Da Emmaus alle rive del lago di Tiberiade ai confini dell’impero. Dal pane spezzato in una locanda di Emmaus al pesce arrostito in riva al lago al “Quo vadis”? appena fuori Roma. Due domande allora nascono in me: Perché invece di incontri, noi proponiamo sempre lezioni? Perché invece di testimoni – non santini da immaginetta, come dice Papa Francesco – proponiamo sempre dogmi teologici e asserti morali? E se oggi o domani lasciassimo la parola a qualche testimone? A qualche mamma che vive la fede e cerca di trasmetterla ai propri figli. A qualche professore che “porta” il Vangelo a scuola. A qualche operaio che cerca di vivere da cristiano in fabbrica. A qualche malato che confida la sua sofferenza al Crocifisso che ha davanti al letto. Il Verbo si fece carne. E la carne non è idea né teoria. La carne si tocca. Si mangia. Riguardo alla venuta del Signore Gesù. Quella dell’ultimo giorno. Quella dell’Eucaristia. Se riuscissimo a non perdere questa ennesima occasione di incontro. «Timeo Dominum transeuntem», diceva Agostino. E tu?
Don Michele Mosa