Dove punta la parabola dei talenti che verrà letta nelle S. Messe di domenica 15 novembre 2020? Al risultato economico? Ad una capacità manageriale da apprendere ed …esercitare con quanta più astuzia possibile? In realtà è una sfida, più grande e radicale di quanto si possa immaginare. Non vi si gioca la carta dell’attività a tutti i costi, quanto piuttosto quella dell’operare dentro il progetto di Dio e per il progetto di Dio. Quindi ad un’incarnazione della parola evangelica che diventi stile di vita per tutta la comunità. I servi non sono servi di rango infimo, viste le somme considerevoli consegnate: un talento constava di un peso d’oro valutato fra i 26 e i 36 kg, in moneta corrente corrispondeva al guadagno di un operaio in 20 anni. La somma vuole essere segno di rapporto non di dominio, non da padrone assoluto ma da chi concede spazio e modo per potersi attivare personalmente, in risposta unica e totale. La responsabilità nel servo cresce e matura nella distanza del tempo? Forse sì e forse no. Bisogna chiedersene la ragione. Ciascuno dei tre servi incarna un desiderio personale, un’immagine di sé che o illumina e sprona oppure offusca e affossa. Magari coesistono in noi stessi: per certi aspetti o impegni, eccoci solerti, dinamici, pronti a sprecare tutte le forze; per altri subentra una stasi che immobilizza e, per timore di perdere qualche brandello, si finisce per perdere tutto! Altre volte si centellina, si dosa, ci si attarda…chissà??? potrebbe anche andar male…La relazione con il padrone così ha acquistato il suo spessore autentico: un dominatore che non perdona e solo esige. Il servo allora mette la testa sotto la sabbia e diventa una mummia a tutti gli effetti della storia personale e comunitaria. Può sembrare la salvezza perché, a ben guardare, il patrimonio è intatto ma non ha fruttato nulla di nulla. La sterilità incombe e stende il suo manto gravoso che appunto non lascia spazio a nulla. Una sorta di servo parassita cui preme sopravvivere: tanto tutto va avanti ugualmente. Passività dettata dal pregiudizio di aver compreso il proprio padrone, che non ci casca: la sua stessa immagine è stata colpita e denigrata. Già le parole della consegna – 150 kg d’oro – ne tradiscono il pensiero so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Al mancato rischio ecco il Signore incollerito perché il servo ha travisato il loro rapporto e polverizzato la fiduciosa consegna del patrimonio; non esige una restituzione: vuole osservare quanto e come i servi hanno operato. Anche perché la ricompensa sarà pari alla fatica del lavoro investito. Gli altri due servi, nella misura data dalla loro specifica realtà, ci dicono come pensino il loro Signore: persona capace di dilatare il proprio cuore, di concedere modi di vita individuali. Il padrone viene onorato perché è compreso nel suo animo veritiero, in quell’amore che non si lascia condizionare o ritagliare perché è pura gratuità. Il servo parassita, servo è rimasto, gli altri sono usciti dalla condizione servile e si sono guadagnati un altro stato sociale. Colui che amato non ha, si è auto punito nella sua sterilità, si è già sepolto, la vita finisce nel pianto e nello stridore. Si traffica quindi ma non per investire, quanto piuttosto per dare ai poveri, in un’economia gestionale evangelica: se si condivide sembra di perdere, invece si raddoppia. Ciascuno di noi, io personalmente però sono il talento: devo lasciarmi muovere e sollecitare dal Suo amore, dalla sua fiducia riposta in me, darGli risposta totale.
Cristiana Dobner (Agensir)