Questa volta Paolo mi ha messo al muro: le domande che mi nascono nel cuore e mi tormentano il cervello sono tremende. Tutto, proprio tutto è per il bene? Il mio bene e il bene dell’umanità, di coloro che amano Dio? Tutto significa anche i miei errori? Le mie fatiche? Le mie sofferenze? Ho l’impressione di infilarmi in un vicolo cieco: o tutto si scioglie come neve al sole e il rischio è quello di ripetere le parole senza senso degli amici di Giobbe (perfino Dio li rimprovera (Gb 42, 7) o “andrà tutto bene”, tranquilli. Cos’è dunque questo tutto? E il bene? È la salvezza? O devo pensare alla prosperità? E poi Dio pensa solo a coloro che lo amano? Non sta scritto che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti e fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi? E poi non bisogna amare i nemici? Quello che però più mi fa riflettere è il “noi sappiamo”: la certezza con la quale Paolo racconta il disegno di Dio sugli uomini. Come dice il salmista: parla perché crede, annuncia il Vangelo perché sa che, come ha cambiato la sua vita, così cambia la vita di chiunque lo accoglie. O come Giobbe: testimonia l’amore di Dio perché lo ha sperimentato: non è il frutto dello studio teologico, non è una nuova dottrina religiosa. Prima era un sentito dire – imparato nelle scuole teologiche di primo livello, certo, ma sempre qualcosa che nasce da letture e conferenze – ora è vissuto personale. “Noi sappiamo” è la proclamazione di un’esperienza. È testimonianza non lezione imparata. Forse è proprio questo che mi mette all’angolo: che esperienza ho fatto io di Dio? E se anche questa riflessione fosse solo frutto di teologia studiata sui banchi di scuola? Ho bisogno di tornare a contemplare il crocifisso. Di ripartire da quella morte che genera vita. Lì davvero si capisce che il bene spesso nasce da ciò che a noi uomini sembra fallimento e sconfitta. E tu cosa provi leggendo queste parole?
Don Michele Mosa