Ascoltiamo queste parole proprio nei giorni in cui cade il 25° anniversario dell’enciclica “Ut unum sint”, promulgata da Giovanni Paolo II il 25 maggio 1995. Le parole di Paolo sembrano far da contrappunto alla “preghiera sacerdotale” di Gesù: la Trinità si riflette e si manifesta nella Chiesa. Lo scriveva Benedetto XVI: «Perché, che altro è la Chiesa se non la comunità dei discepoli che, mediante la fede in Gesù Cristo come inviato del Padre, riceve la sua unità ed è coinvolta nella missione di Gesù di salvare il mondo conducendolo alla conoscenza di Dio? Qui troviamo realmente una vera definizione della Chiesa». Comunità che ha nel Battesimo il suo fondamento e nello Spirito Santo la sua linfa vitale. Linfa che, come ricorda il Concilio Vaticano II «il Signore dei secoli … in questi ultimi tempi ha incominciato ad effondere con maggiore abbondanza nei cristiani tra loro separati l’interiore ravvedimento e il desiderio dell’unione», così che «è sorto, per impulso della grazia dello Spirito Santo, un movimento ogni giorno più ampio per il ristabilimento dell’unità di tutti i cristiani» (“Unitatis redintegratio”, 1). Un corpo solo che si esprime nella molteplicità delle sue membra, tutte dotate di pari dignità e tutte chiamate a dare il loro prezioso contributo. Forse potremmo riprendere il famoso apologo di Menennio Agrippa spiegato ai plebei di Roma in rivolta contro i patrizi nel 494 a. C. anche se Paolo è stato più probabilmente influenzato dalla filosofia stoica. Di fatto mi sembra importante richiamare il riferimento al Battesimo: unico perché viene dallo Spirito che è unico, suscitatore di carismi sempre nuovi, con un unico scopo però: il bene comune. Criterio veritativo sommo: la comunità. La Chiesa. Non un gruppo. Se dimentichiamo questo facciamo della Chiesa una setta: e nella setta il criterio non è l’unità ma la leadership del capo. Invece, come ricorda Gregorio Magno, il Papa è – e deve essere – “servus servorum Dei”. Abbiamo bisogno di riscoprire il valore del Battesimo – il sacramento che ci fa cristiani e ci costituisce come membra della Chiesa – e di imparare a viverlo nella sua pienezza: come figli che pregano il Padre, come fratelli che vivono la carità, come custodi del creato. Solo se riscopriremo il fondamento unico che tutti ci unisce potremmo spendere e far fruttificare i nostri carismi e rispondere in pienezza alla nostra vocazione. Almeno credo. Se invece vogliamo rivendicare innanzitutto i nostri doni e le nostre capacità, se metteremo al primo posto il nostro ruolo sarà il nostro bisogno di affermarci a emergere: non sarà Chiesa ma una qualsiasi multinazionale. Tradimento ultimo del Dio che si è donato.
Don Michele Mosa