La mia nonna e la mia mamma lo chiamavano “il vestito della domenica”. Il “vestito della festa”. In Portogallo si chiama il “vestito per vedere Dio”. Già vedere: l’unica cosa che oggi – vietati gli abbracci – ci è rimasto: vederci, seppure a distanza e solo riflessi in uno schermo. Però, almeno così – si dice – riusciamo a vederci. Ma Dio non possiamo vederlo. È, in un certo senso, la sua caratteristica: si mostra di spalle a Mosè, si rivela nel silenzio a Elia, si manifesta nel povero Lazzaro o in Zaccheo pubblicano o in un Samaritano sulla strada per Gerico o nello sconosciuto su quella per Emmaus. Dio ama ri-velarsi: farsi conoscere nascondendosi. Del resto ri-velazione è azione che trascende l’essere umano: non è una scoperta, non è una conquista. È un darsi, libero e gratuito. Mi s-velo, mi abbasso e mi spoglio per rendermi visibile ma nello stesso tempo mi ri-velo, indosso la tua carne e per farmi conoscere come Dio ti vengo incontro come Uomo. (Ho riflettuto molto in questi giorni sul momento in cui Pilato presenta Gesù alla folla: Ecce homo, ecco l’uomo. O Ecce Deus, ecco Dio?). Vedere è il verbo della Pasqua: “E vide e credette”, si dice del discepolo che Gesù amava. Proprio questo però lo rende un verbo inafferrabile ed enigmatico: e non perché non capisce cosa guardare, perché se non fa da ponte al credere non serve a nulla. È inutile. Però proprio dalla sua inutilità trae la sua forza: per cui ecco la beatitudine che tutti può accomunarci: «Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui». La questione della Pasqua è sempre la stessa: perché credere a te che dici di averlo visto se poi io non lo vedo? «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!» perché credendo avranno «la vita nel suo nome».
Don Michele Mosa