Parole che in questi giorni ho sentito cantare più volte: “siam pronti alla morte”. Nel nome di un ideale e di una nascente nazione. Per la gloria di un popolo. Per “fare l’Italia”! Siamo pronti a morire. Già, la morte. La morte che ci circonda e quasi ci abbraccia ogni volta che varchiamo il cancello di un cimitero. La morte che in questi giorni ha il volto del nonno o il nome della mamma. La morte che è causata da una malattia o da una tragedia. Da un incidente o da un attentato. Verso quale di queste morti si avvicinano questi giovani? Per un ideale di nazione? Forse. Per non tradire l’eredità identitaria di un popolo? Anche. Questi giovani affrontano la morte sognando una vita più grande. Testimoniando il Dio “amante della vita”. Stanno davanti al carnefice ma vedono il Dio che ridona la vita. Quella morte è per la risurrezione. Quei giovani sono testimoni. Martiri. Annunciano vita, non seminano morte. Provocano con un gesto che non può non far riflettere: è il gesto del seme. Ma, come accade al seme, molti – anzi quasi tutti – non se ne accorgono. È “il ciclo della vita”: il seme muore per produrre la spiga. Il Ciclo della vita, appunto. Mi domando allora: che senso ha la mia vita? Vivo o trascino giornate vuote e senza senso? Quando mi è chiesto di morire – e si muore ogni giorno – sono come il seme? Come questi giovani? Un giorno sarò giudicato sull’amore. Sui piccoli e concreti gesti di vicinanza a chi vive accanto a me: ho paura di non superare l’esame. Come però prega il Canone Romano: conto sulla Sua misericordia. E tremo ripensando alle parole di San Paolo VI: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni».
Don Michele Mosa