La Sacra Scrittura di domenica 30 giugno

Il commento di don Michele Mosa. «Se riuscirò anche solo a toccare»; «Chi ha toccato le mie vesti?». E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare

Di Don Michele Mosa

 

Questa volta mi arrendo: Dio non è spirito? Anzi “puro spirito”?

E allora come fai a toccarlo? Come puoi desiderare di toccare l’invisibile? Di più: l’incorporeo?

Ma non è finita. Come può chi non ha corpo pensare al cibo? Pensare prima di ogni cosa al cibo?

Che anche Dio – il dio cristiano – ragioni con la pancia?

Toccare: azione di chi vuole rendersi conto personalmente e non si fida di ciò che gli altri raccontano. Azione di chi non vede e deve affidarsi al tatto.

Toccare dice bisogno di contatto fisico.

Dice emergere della corporeità.

Di quel corpo – preferisco dire con Giovanni carne – che tanto sa di peccato. Che tanta ascesi e spiritualità allontana dal nostro quotidiano come demoniaco.

Carne: dio lo incontri però solo lì, nella carne.

Si è fatto carne.

Si è fatto corpo per nutrirci. Per essere cibo al nostro corpo.

Dobbiamo tornare al corpo.

Dobbiamo tornare ai sensi.

Al linguaggio più umano e universale che ci sia: i sensi e le emozioni.

Il linguaggio che ci permette di raggiungere tutti.

Noi che siamo alla ricerca di un linguaggio per comunicare, soprattutto con i più giovani e gli adolescenti, proprio da qui dovremmo ripartire.

Dai bisogni primari: datele da mangiare, dai sensi e dalle emozioni: toccare. Percepire. Dialogare.

Sapienza pedagogica del dio del vangelo: nessuna astrazione, estrema concretezza.

Perché spirituale non si oppone a carnale. Né a corporale.

Spirituale si oppone ad astratto.

E purtroppo la nostra religiosità spesso è astratta.

Dalla realtà. Dalla vita.