Di Don Michele Mosa
Questa volta mi arrendo: Dio non è spirito? Anzi “puro spirito”?
E allora come fai a toccarlo? Come puoi desiderare di toccare l’invisibile? Di più: l’incorporeo?
Ma non è finita. Come può chi non ha corpo pensare al cibo? Pensare prima di ogni cosa al cibo?
Che anche Dio – il dio cristiano – ragioni con la pancia?
Toccare: azione di chi vuole rendersi conto personalmente e non si fida di ciò che gli altri raccontano. Azione di chi non vede e deve affidarsi al tatto.
Toccare dice bisogno di contatto fisico.
Dice emergere della corporeità.
Di quel corpo – preferisco dire con Giovanni carne – che tanto sa di peccato. Che tanta ascesi e spiritualità allontana dal nostro quotidiano come demoniaco.
Carne: dio lo incontri però solo lì, nella carne.
Si è fatto carne.
Si è fatto corpo per nutrirci. Per essere cibo al nostro corpo.
Dobbiamo tornare al corpo.
Dobbiamo tornare ai sensi.
Al linguaggio più umano e universale che ci sia: i sensi e le emozioni.
Il linguaggio che ci permette di raggiungere tutti.
Noi che siamo alla ricerca di un linguaggio per comunicare, soprattutto con i più giovani e gli adolescenti, proprio da qui dovremmo ripartire.
Dai bisogni primari: datele da mangiare, dai sensi e dalle emozioni: toccare. Percepire. Dialogare.
Sapienza pedagogica del dio del vangelo: nessuna astrazione, estrema concretezza.
Perché spirituale non si oppone a carnale. Né a corporale.
Spirituale si oppone ad astratto.
E purtroppo la nostra religiosità spesso è astratta.
Dalla realtà. Dalla vita.