Grandiosa immagine che richiama alla mente di tutti – ne sono certo – le mura leonine che circondano la Città del Vaticano o le mura di Ferrara o almeno i resti delle mura che circondavano la nostra Pavia. Mura che difendono, proteggono, abbracciano. Mura che danno sicurezza. Nella campagna sei in balia dei predoni e degli eserciti, la città è un “porto sicuro”. L’architettura non è fine a se stessa ma al servizio dei cittadini. Non per nulla città deriva da “civitas”, indica cioè l’insieme dei suoi abitanti: i “cives” – i cittadini, appunto. Gli edifici rimandano a chi li abita: una comunità non un reggimento di soldati. Le mura allora non sono soltanto un limite, una frontiera, sono braccia che accolgono: difendono non perché munite di torri e catapulte ma perché hanno fondamenta solide. La forza delle mura non sono le sentinelle, è il legame che unisce i cittadini. Lasciatemi dire una cosa che so farà storcere il naso a molti: la città-“civitas” è inclusiva, aperta e accogliente. Le nostre città degli uomini, come direbbe Agostino, e ancor di più la città di Dio. La Gerusalemme celeste non ha una porta per lato ma tre, a dirci che l’accesso è per tutti, o almeno per molti. (Fatemi giocare contro ogni regola linguistica: polis, cioè città in greco, è diversa da “polys”, cioè molti, solo per una lettera. Città è molto non poco, dunque). Le porte poi mi fanno pensare all’ovile custodito. Pastore bello, pastore che spinge fuori le sue pecore. La città allora è luogo di partenze non di arrivi. Luogo di incontri. Di annunci. Qui permettetemi di aprire una parentesi, piccola, solo per rileggere la nostra quotidianità. Perché le mura sono diventate limite invalicabile, protetto da allarmi antintrusione? Perché abbiamo poche porte e quelle poche sono blindate? Penso ad esempio ai sacramenti e ad alcune parole di Papa Francesco: «Tante volte siamo controllori della fede, invece di diventare facilitatori della fede della gente». E ancora: «Gesù ha istituito sette Sacramenti e noi con questo atteggiamento istituiamo l’ottavo: il sacramento della dogana pastorale!». Città celeste senza tempio, senza chiese ma con Dio che la illumina.
Don Michele Mosa