Amen. A volte, distribuendo la comunione, mi capita di avere come risposta Grazie invece di Amen. Confesso che mi disturba un po’. Se infatti può essere segno di gentilezza e cortesia nei miei confronti, dall’altra è indice di una mancata comprensione del gesto che stiamo vivendo e soprattutto del significato di quella piccola parola ebraica. Una delle poche parole che il testo biblico ha mantenuto nell’originale. (E che usiamo nella liturgia, come Alleluia). Viene ricondotta alla radice ebraica une: “aman”, che significa “essere saldi”, “stabili”, “aver fiducia”, “credere fermamente”: ha quindi sullo sfondo l’idea della certezza e della stabilità ma porta con sé anche il valore di educare e di credere. Niente a che fare dunque con l’italiano della traduzione “Così sia” che rischia di essere o un’affermazione passiva – abbasso il capo e accetto tutto – o come un augurio – speriamo che sia davvero così. In merito spiegava Agostino che quell’Amen dichiarava l’appartenenza a Cristo, o meglio il riconoscersi parte del Corpo di Cristo. «Infatti tu senti: «Il Corpo di Cristo»; e rispondi “Amen”. Sii membro del corpo di Cristo, perché sia vero quell`Amen». Dunque, l’Amen è il sigillo della tua professione di fede. È il tuo sì alla sequela. è – mi verrebbe quasi da dire – il nome del discepolo di Cristo. Amen: cioè credo in Te. Signore Gesù. Mi affido a Te. Cammino seguendo Te. Amen: diciamo con convinzione, come i quattro esseri viventi dell’Apocalisse e non per abitudine, spegnendo la voce perché tutto lì, finalmente, si conclude. È l’acuto che ti risuonerà nelle orecchie per far vibrare il cuore. È la melodia che ti accompagnerà durante la giornata. Amen. Pensate che la tradizione islamica sunnita insegna che al termine della recita della Prima Sura del Corano, la cosiddetta al-Fātiha (“colei, che apre”), si pronuncia l’amen – ‘āmīn in arabo – anche se non è scritta nel Corano.
Don Michele Mosa