Ricordate l’ “Attimo fuggente” e il professor Keating? Il suo salire sulla cattedra o il far camminare i ragazzi in cortile o invitarli a scrivere poesie? Erano modi diversi per dire che «Dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso». Perché – lasciatemelo dire – è sempre una questione di punto di vista. Per il suddito è una conquista e un diritto ciò che per il re è una concessione. Oppure diciamolo così: per il capo è giusto avere quello che gli altri chiamano privilegio. Ora ci siamo io e te da una parte, e Dio dall’altra. Dalla nostra prospettiva c’è l’infinita grandezza di Dio, la sua Onnipotenza mentre dalla sua c’è la misericordia, il farsi vicino a ognuno di noi. Quello che noi chiamiamo Trono dell’Altissimo, Egli lo chiama Croce sul quale il Figlio unigenito dona la vita. Quello che noi vediamo come sofferenza senza senso, dolore innocente, Egli lo chiama via di condivisione, porte spalancate: piaghe che diventano passaggi d’amore. Autostrade su cui far correre “il grande amore del Padre”. Secondo Isaia profeta noi siamo tatuati sul palmo della mano di Dio: ora possiamo dire di conoscere il disegno di quel tatuaggio: basta ascoltare il Figlio nel giorno di Pasqua e osservare le sue mani, come Tommaso: quel tatuaggio, impresso per sempre e in modo indelebile sul palmo della mano di Dio è il segno dei chiodi. Il segno di un amore che mai finisce. «Se anche tutti i nostri amori terreni si sgretolassero e non ci restasse in mano altro che polvere – ha detto Papa Francesco – c’è sempre per tutti noi, ardente, l’amore unico e fedele di Dio». In quel tatuaggio è il segreto del nostro essere figli. Quello è il nostro Dna. Però è vero: per riconoscere i figli, bisogna prima conoscere il Padre. Cioè passare dal “fantasma di Dio” o dal “Dio fantasma” al Dio che dona il Figlio sulla croce. Bisogna cioè uscire dalla logica di una spasmodica – e spesso inconcludente ricerca di assoluto e di vaga spiritualità – per lasciarsi trovare da Dio. Bisogna, forse come quando nasce un uomo, lasciarsi sorprendere dalla meraviglia, bisogna uscire dai piani e dai progetti pastorali e fidarsi di più dell’amore. Bisogna – e questa è forse la conversione più difficile – tornare a vedere e gustare la bellezza. Della natura. Dell’uomo. Della Trinità. Del pastore, come ci ricorda proprio il brano del Vangelo che la liturgia ci fa ascoltare questa domenica. Ricordando che conversione è fatica perché ci chiede di cambiare prospettiva: dalla mia alla tua. Fino ad arrivare alla Sua. Perché se le ferite di Cristo sono oggi le ferite del suo corpo, perciò della Chiesa, allora – come dice l’Arcivescovo di Milano – quelle ferite «sono rivelazione della sua conformazione a Gesù e del suo desiderio di essere condotta da Gesù fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo».
Don Michele Mosa