Secolo di grande trasformazione, il quarto secolo, per la vita della Chiesa e per l’Impero Romano: dall’Editto di Milano a quello di Teodosio, dal riconoscimento pubblico all’essere religione dell’impero (imperatore). Dalle conversioni di massa (con tutto ciò che questo comporta) ai grandi Concili cristologici. Su questo sfondo si ritrovano ad Atene, dove studiavano la filosofia, due giovani provenienti dalla Cappadocia: Basilio, freddo e concreto, e Gregorio, passionale e ambizioso: opposti nel temperamento ma legati da una profonda amicizia che trova nella sequela di Cristo la sua roccia. Gregorio e Basilio: chi meglio di loro può dirci come si vivono le parole di Paolo? Scriveva Gregorio: «Questa era la nostra gara: non chi fosse il primo, ma chi permettesse all’altro di esserlo. Sembrava che avessimo un’unica anima in due corpi». Commenta Papa Francesco: tante volte infatti «nelle nostre istituzioni, nella Chiesa, nelle parrocchie, per esempio, nei collegi troviamo… la rivalità; il farsi vedere; la vanagloria». Questi sono dei veri e propri «tarli che mangiano la consistenza della Chiesa, la rendono debole» e questo perché «la rivalità e la vanagloria vanno contro l’armonia, la concordia». Sogno? Chiudo il libro e torno alla realtà: scontri, chiacchiere, bisogno di riconoscimento, forse addirittura ansia da prestazione. Per non dire di quel sotterraneo (ma non troppo) gareggiare per dimostrare che la “mia” parrocchia è meglio di quelle vicine. Ho bisogno di un nuovo paradigma: di spostare l’asse su cui poggia il mondo: dalle mie spalle a quelle del Crocifisso. Ho bisogno di decentrarmi, di mettere l’altro al centro. Devo smettere di chiedere – qualche volta rivendicare – ciò che mi spetta e iniziare a ringraziare l’altro per ciò che fa. Decentrarsi però è difficile, anzi complesso: richiede innanzitutto, proprio come dicono gli Ebrei abbia fatto Dio, fare un passo indietro: dare spazio all’altro. Poi uscire dalla logica che tutto occupa e tutto pretende di controllare e battezzare e abbracciare la logica dell’annuncio e del dialogo; in altre parole, per dirla con il Papa: non occupare spazi ma dar vita a processi. O, e forse si capirà meglio: uscire dall’ideologia del capo di partito che pensa alle prossime elezioni e imparare lo sguardo dello statista che pensa alla prossima generazione. Il centro non sono Io ma Loro. Non devo vincere Io ma il Vangelo. Un altro scoglio: basta pensare a domani con la nostalgia di ieri. Se lui e lei sono davvero i miei “superiori”, l’unico modo che valorizza la vita è il servizio. A partire da chi presiede e guida la Comunità: è “servus”, non capo. Condivide non dà ordini. Sostiene non umilia. Apre cammini non tarpa le ali. Lo dico pensando a me. E ai vescovi. Lo dico perché la mia parrocchia è attraversata da rivalità che chiudono in gruppi più che dall’umiltà che genera amicizia. Impariamo da Basilio e Gregorio: «E mentre altri ricevono i loro titoli dai genitori, o se li procurano essi stessi dalle attività e imprese della loro vita, per noi invece era grande realtà e grande onore essere e chiamarci cristiani». Il resto è un peso inutile.
Don Michele Mosa