Eppure scriveva Epicuro all’inizio del sec. III a. C. a Meneceo: «Abítuati a pensare che nulla è per noi la morte, poiché ogni bene e ogni male è nella sensazione, e la morte è privazione di questa. […] Perciò stolto è chi dice di temere la morte non perché quando c’è sia dolorosa ma perché addolora l’attenderla; ciò che, infatti, presente non ci turba, stoltamente ci addolora quando è atteso. Il più terribile dunque dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché “quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte noi non siamo più”. Non è nulla dunque, né per i vivi né per i morti, perché per i vivi non c’è, e i morti non sono più» (Lettera sulla felicità). Paolo però fa un passo avanti: la morte non solo è “qualcosa” che esiste e affrontiamo da vivi: siamo consci di dover morire, perché la morte in realtà, ne sono profondamente convinto, è lo specchio della vita (basta pensare al centurione romano sotto la croce: «vedendolo morire in quel modo… “è il Figlio di Dio”»). La morte interroga la vita: come l’hai spesa? Per chi l’hai spesa? Come già aveva ricordato ai Romani: se vivi, vivi per il Signore; se muore, muori per il Signore. E ai Galati (2, 20): «non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me»». O, come dirà Ambrogio «Cristo è tutto per noi». Non ci resta allora che concludere: se vivi per Cristo, la morte è un guadagno. Altro che averne paura. O cercare il modo di evitarla, seppure solo a livello filosofico e con il pensiero. Epicuro usa la filosofia, Paolo la fede in Cristo. Il filosofo parla di saggezza, l’Apostolo di follia? Perché davvero bisogna essere “fuori di sé” per considerare la morte un guadagno. Si tratta quindi del tentativo di tradurre in parole un’esperienza mistica? Romano Penna non lo esclude ma spiega che qui «Paolo vuole dire che tutta la sua esistenza sul piano dell’impegno ha come scopo Gesù Cristo, cioè tutto ciò che egli fa, mediante la predicazione del Vangelo e la cura delle sue comunità cristiane, non tende ad altro se non a promuovere Cristo»: siamo cioè passati dall’esperienza intima alla dimensione apostolica. Mi sembra si possa a questo punto rileggere il celebre motto di Tommaso d’Aquino: «contemplari et contemplata aliis tradere», «si annuncia solo ciò che si è contemplato». Sapendo però che la contemplazione, la preghiera, la meditazione sulla Parola di Dio non sono un mezzo ma la fonte dell’attività apostolica e missionaria. Morire è un guadagno forse per chi non fa programmi, neppure pastorali o perlomeno non si lascia schiacciare da essi, ma ama costruire relazioni: verticali e orizzontali. Morire a se stessi per vivere e non lasciarsi vivere, come spesso purtroppo accade a tanti. Come dice Teresa d’Avila nella poesia “Muoio, perché non muoio”, di cui riporto solo le prime strofe invitando a leggerla e a gustarla tutta intera:
Vivo ma in me non vivo
e fino a tal punto spero
che muoio perché muoio.
Vivo ormai fuori di me
dopo esser morta d’amore,
perché vivo nel Signore,
che mi ha voluta per sé:
quando gli ho dato il mio cuore
vi ha scritto queste parole:
Che muoio perché non muoio.
Don Michele Mosa