Pochi mesi prima di morire – 2 febbraio 1826 – Jean Anthelme Brillat-Savarin, politico francese vissuto al tempo della Rivoluzione e grande appassionato di gastronomia (inventò lo stampo per le ciambelle, per dirne una) scrisse il trattato “Fisiologia del gusto”. In esso c’è la famosa frase: «dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei». Ma chi lo conosce? È un po’ come Carneade per don Abbondio: un illustre sconosciuto. Qualche anno più tardi, il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach, presentando il “Trattato dell’alimentazione per il popolo” del medico e fisiologo olandese Jakob Moleschott, pubblicato in Germania nel 1850, scriverà una frase ancora più famosa: «L’uomo è ciò che mangia». Mangiare non è solo questione di sopravvivenza: è umanità. Varia il cibo che mangi, il modo in cui mangi ma il gesto del “prendere cibo” è un gesto culturale e religioso: basta pensare alla legge del “kasher” ebraico e dell’ “halal” islamica. Gesù è in mezzo a noi come pane e vino: ricordarlo è vivere un momento conviviale. Ma – scrive Paolo – se mangi quel pane, quell’unico pane diventi un unico corpo. Molti grani macinati per formare un unico pane. Da qui la riflessione patristica che lega la Chiesa e l’Eucaristia e che Henri de Lubac riassume con la frase: «L’Eucaristia fa la Chiesa e la Chiesa fa l’Eucaristia». Legame inscindibile: il lungo digiuno di questi mesi ce l’ha fatto sperimentare. Mangiare quel pane è esigenza di unità: a tre livelli credo. Con l’umanità: quel cibo ci associa, ci unisce al sacrificio di Cristo, fonte di salvezza e dono di vita per tutti gli uomini e le donne. Con tutte e tutti coloro che di quel cibo si nutrono: esigenza di unità fra fratelli e sorelle radicati in Cristo dal Battesimo e nutriti dall’unico pane e dall’unico calice. Come può essere fuori del nostro orizzonte – culturale e pastorale – l’ecumenismo (con tutte le differenze teologiche e il bisogno spirituale che proprio quell’unico pane esprimono, se volete). Intraecclesiale: troppe divisioni caratterizzano la vita delle nostre parrocchie. Troppi gruppi che, pur impegnandosi, faticano ad aprirsi e a collaborare fra loro. Abbiamo bisogno di scoprire ogni giorno il valore di quel cibo per lasciarci trasformare da esso. Chi mangia di me, vivrà di me. Usciamo dai ritualismi inutili, dai paramenti che trasformano il prete in un manichino. Riscopriamo la “fruttuosa partecipazione” di tutti i cristiani alla Cena. Basta con le prime donne: sull’altare, nel coro… È liturgia, non spettacolo. Alle due frasi sopra ricordate: «dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei» e «l’uomo è ciò che mangia» aggiungo la mia: «Dimmi come mangi e ti dirò chi sei». Perché credo che il modo con cui una comunità celebra l’Eucaristia dica il suo modo di essere Chiesa.
Don Michele Mosa