In queste settimane stiamo scoprendo cosa significa essere precari: e non solo per motivi legati al lavoro. Precari forse ancora più che fragili: un vaso è fragile ma se lo collochi in posizione che né il tuo bambino né il tuo gatto possano prenderlo è al sicuro. Precari: costantemente sul filo del rasoio: mascherina, guanti monouso, disinfettante…Noi però non siamo precari e neppure di passaggio: siamo pellegrini. Cioè siamo stranieri che attraversano un territorio che pur riconoscendo come loro patria non sentono pericoloso per la loro incolumità. Siamo pellegrini: camminiamo ma non andiamo a zonzo. Magari non ci affidiamo a un’agenzia di viaggio – fosse pure la Chiesa, di cui poco ci fidiamo – ma abbiamo una meta. Come leggiamo nella Lettera a Diogneto (metà del secondo secolo): i cristiani «vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera». O come disse Papa Giovanni XXIII il 4 ottobre 1962 a Loreto: «La nostra vita è pellegrinaggio, del cielo siamo fatti: ci soffermiamo un po’ qui e poi riprendiamo la nostra strada». La cosa curiosa è che questa “residenza in terra straniera” in greco – e il vocabolo è anche nel passo di Pietro che leggiamo – si dice “παροικία”. E questa è proprio una bella provocazione: cosa significa essere parrocchia? Come vive una parrocchia? È giunto il momento di rileggere la nostra pastorale: certamente. Ma prima oso dire che è giunto il momento per uscire dalla mentalità tridentina che voleva la parrocchia come una realtà fissa, quasi immobile, una casa fra le case. Forse oggi ci è chiesto di essere solo una tenda: strutture leggere e molta attenzione alle persone. Ospedale da campo non clinica privata o addirittura una clinica dove operano chirurghi estetici. Non si tratta di cambiare qualcosa ma di rileggere in profonda non cosa faccio ma chi sono. “Parroci inamovibili” che litigano con vescovi “colonnelli”. Nel tempo della sua “παροικία” in terra turca Angelo Giuseppe Roncalli annotava nel suo Diario: «Non debbo essere maestro di politica, di strategia, di scienza umana; ce n’è d’avanzo di maestri in queste cose. Sono maestro di misericordia e di verità». O, per usare ancora una metafora di Giovanni XXIII, la parrocchia è come la vecchia fontana del villaggio: è sosta e refrigerio non dispensa che conserva o carcere che imprigiona. Disseta non secondo quanto lei decide ma secondo la sete chi attinge acqua. È immobile? Apparentemente sì, in realtà cambia – e non solo perché non ci si abbevera della stessa acqua. La fontana cambia perché ha la medesimo tempo il sapore di chi la tiene efficiente e di chi ne usa. Una cosa poi mi sembra fondamentale, soprattutto per noi preti: non importa se custodisce un monumento come Fontana di Trevi o un santuario come le fontanelle di Lourdes o un cannello di montagna: conta che tu sappia dissetare chi si ferma. Fosse pure una donna Samaritana. Questi giorni sono “tempo propizio” per pensare. Domani invece sarà l’ora di cambiare. Pena una lenta ma inevitabile agonia.
Don Michele Mosa