O meglio: «Infatti, Egli (Gesù) non prende su di sé gli angeli, ma prende su di sé la discendenza di Abramo»: si tratta cioè di entrare nella logica, prettamente cristiana, dell’Incarnazione del figlio di Dio. Si tratta cioè di entrare nella logica della Pasqua: la totalità del dono di sé che travalica perfino i confini della morte: e penso non solo alla Risurrezione ma di più: al fatto che Gesù non ha neppure più un corpo sepolto. Si è fatto talmente dono che non esiste neppure il suo cadavere. Si è preso cura degli uomini, di ciascuno di noi, di me e di te diventando nostro cibo: se vuoi incontrarLo devi scoprirlo nella carne del tuo vicino, del tuo compagno di viaggio. In altre parole devi ripetere il suo gesto “eucaristico”: prenderti cura degli uomini. O se vuoi dirlo con altre parole: farti prossimo. Ma attenzione: non si tratta di ridurre la Chiesa a una Ong, agenzia umanitaria che si spende sul piano del sociale e del filantropico. Si tratta di donare quello che hai ricevuto. E di farlo gratuitamente. Di farlo con la Sua stessa logica perché c’è più gioia nel dare che nel ricevere (cfr Atti 20, 35; 2Cor 9, 7). Il dono arricchisce più dell’avidità e dell’avarizia. I care, come diceva don Milani. E – vorrei aggiungere – come suggeriva il tema della Settimana di preghiera per l’Unità dei Cristiani: farlo con gentilezza. Con umanità. È la carezza data alla vedova di Nain o alla Samaritana o all’adultera. È l’abbraccio con cui stringe a sé Matteo e Zaccheo e – mi viene la pelle d’oca al pensarci – l’amico Giuda Iscariota. È la premura con chi va incontro a Maddalena nel giardino della risurrezione o a Tommaso nel cenacolo. I care: è la tenerezza del Padre verso di me. E di te. «Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?» Pregare con queste parole del Salmo 8 ci farà ricordare che la cura che Dio Padre ha per me, io devo averla per gli altri. Senza distinzione. Senza pretese. Senza ritorni.
Don Michele Mosa