“Detesti proprio essere toccato dalla gente.
Mi ricordo la prima volta che ti ho incontrato,
ti avevo urtato e tu avevi fatto un salto di due metri.
Ma perché? Paura dei germi?”
“No. Paura di essere aggredito.”
Andy Warhol
Un giorno accadde. Tutto era sospeso. E sembrò di essere entrati in un quadro di de Chirico. Le strade, le piazze erano vuote, invase da uno strano silenzio assordante. Era scoppiata la pandemia, una guerra batteriologica,… ma perché,… e voluta da chi?… Qualcuno frugò in quel mistero cosmico e vide nel silenzio l’unica chiave di svolta. Ma è difficile il silenzio. Per alcuni è un’esperienza insostenibile. Eppure è così bello, il silenzio. Ma la bellezza, mette in guardia il poeta, non è altro / che l’inizio del tremendo, che appena riusciamo / a sopportare (…). (Rainer Maria Rilke, Elegie Duinesi, I).
Si vorrebbe ridere – per salvarsi la vita, un po’ di sana ironia, meglio ancora se autoironia – invece il riso non viene per il numero dei morti. Davanti agli occhi l’interminabile fila di bare fa ammutolire, anche il pianto stenta a venire, sopraffatto dalla paura. Si vorrebbe ridere, cantare, pregare, per rompere il silenzio. Il silenzio fa paura. Non appena ci si disconnette da quelle protesi che sono il computer, il tablet, l’iphone, la mente va al virus, e sopraggiunge l’angoscia, di cui ci si sente succubi. Ci si sente raggelare, pietrificare, senza scampo, ed è panico. Quanto al riso, si constata, purtroppo, che prevale lo sghignazzo. E nei social proliferano, ancora, video virali. Chi li ha realizzati, lanciandoli nell’universo della rete, non ha capito che il virus è ancora qui, sul pianeta Terra, e spetta a lui quest’aggettivo. Per scongiurare la paura meglio telefonare, mandare messaggini corredati dai video del momento, più che altro immagini idilliche con tanto di musica rasserenante, o anche barzellette, qualcosa cui il popolo dei social è abituato, qualcosa che non faccia pensare, con un salutare effetto anestetizzante delle coscienze, tanto per distrarsi un po’. Pensare fa stare male, causa la depressione.
Qualcuno avrebbe voluto pregare, ma le chiese a lungo sono rimaste chiuse. Un’eccezionalità che ha segnato profondamente gli animi ed è rimasta nell’immaginario collettivo lasciando un’amarezza sconosciuta. La pandemia ha distrutto la pietà, impedendo i funerali. Non era mai accaduto. Che si sia così compiuta, grazie alla pandemia, quella richiesta di Gesù che suona brutale: Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti? (Matteo, 8,21-22). Certo che no. Per motivi di Salute pubblica, tra le varie ‘sospensioni’ ci fu anche quella dei funerali. Si dovette imparare a piangere i propri morti da lontano.
Cosa ci differenzia dagli animali? Il riso e il seppellimento dei morti. Il senso dell’umorismo, proibito solamente nei lager, e il senso del sacro da cui sono scaturite le religioni. Molto prima dell’avvento del cristianesimo, i popoli dell’area mediterranea cominciarono a seppellire i morti. Il senso della pietà salvaguardò gli uomini dalla ferocia facendoli progredire nella scala dell’evoluzione.
C’è un quadro, in realtà una serie, di de Chirico, che ci porta in un luogo lontano nello spazio e nel tempo, e che potrebbe simboleggiare questo tempo di crisi, in cui anche la pietà è rimasta ‘sospesa’. Nel quadro si vede una torre la cui cima si perde nell’azzurro. In luoghi deserti s’innalzavano torri sulla cui sommità venivano esposti i cadaveri. Inaccessibili a chiunque; solo i becchini vi stazionavano il tempo di adagiare le salme su una piattaforma, poi abbandonavano la torre. La terra era sacra, non poteva essere contaminata dal corpo in putrefazione. Nella valle risuonavano grida selvagge. Nel blu altissimo una nuvola nera proiettava la propria ombra sulla sabbia. Frotte di avvoltoi e uccelli rapaci planavano sulla torre. Ne arrivavano a migliaia, richiamati dall’odore della carne, per gettarsi sul cadavere di cui sarebbero rimaste solo le ossa. L’alacre lavorio dei becchini dell’aria si compiva in un breve lasso di tempo; dopo il festino avrebbero lasciato la valle su cui sarebbe calato il silenzio. Grazie alle creature dell’aria terra e acqua restavano intatte.
Ma probabilmente, prima dell’accadimento di quel rito feroce, le onoranze funebri venivano celebrate, affinché i famigliari e tutti coloro che avevano amato la persona scomparsa potessero compiangerla e condividere il lutto con i sopravvissuti.
Nella fase uno, pregare e cantare lo si è fatto ciascuno nelle proprie abitazioni, grazie ai mezzi multimediali che hanno permesso i collegamenti. Allora si è visto un uomo vestito di bianco camminare solo, il passo incerto e stanco in una piazza San Pietro deserta, e perciò spettrale. Tutto era surreale, a cominciare dalla piazza, vasta e smisurata. Non finiva mai quel faticoso attraversamento, sotto una fitta pioggia fina. L’impiantito lucido rifletteva le statue, l’obelisco, ogni cosa nell’ora blu, e quel puntino bianco, mobile, vivo. Poi il Papa, sempre più curvo nell’ascesa al sagrato della basilica di San Pietro, si è arrestato e, davanti al Crocifisso, ha pregato. A lungo ha pregato. Era il 27 marzo 2020. Le “lacrime del cielo” rigavano il corpo di dolore del Cristo, quel Crocifisso quattrocentesco già portato in processione dai romani nei secoli passati per scongiurare la peste. Nel silenzio, l’urlo della sirena di un’ambulanza si mescolava ai rintocchi delle campane. Il Santo Padre era lì per tutti noi, il volto sofferente, madido di pioggia, la sua preghiera non faceva distinzioni. All’interno della Basilica di San Pietro, a lungo il Papa ha innalzato l’Ostensorio rivolgendolo ai quattro punti cardinali della Terra nella solenne Benedizione Urbi et Orbi. Un monito di pace e speranza, per sanare le ferite e rincuorare gli afflitti, per impedire al vuoto e alla disperazione di toglierci tutto.
Papa Francesco tocca sempre le corde del cuore con la grazia potente di due semplici parole: dono e perdono. È il paradosso dell’Amore, ogni volta, il segreto della felicità anche nella tristezza. E nell’omelia del 27 marzo 2020, Bergoglio ha esortato i fedeli “ad avere il coraggio di tacere nel silenzio davanti a Dio”.
Il virus ci ha tolto la pace dell’anima, il senso del sacro e della pietà, inchiodandoci a una paura subdola, la stessa che emana da ogni tirannia e totalitarismo. L’eccezionalità del distanziamento sociale – speriamo non divenga una norma – ha reso le piazze del tutto simili a quelle dei quadri di de Chirico, in cui si aggirano minuscole figure solitarie. Per contro risaltano gli edifici, che paiono giganteschi. Spesso, in luogo della figura umana, troviamo dei manichini, ossia degli esseri privi d’identità. Come quei quadri sembrano prefigurare la realtà surreale di oggi. I nostri volti, imbavagliati dalla mascherina, hanno perso i tratti somatici, quell’individualità che è cifra di ogni identità. Talvolta, così mascherati, i volti non sembrano neanche volti, e stentiamo a riconoscerci. Gli artisti sono profeti, o, forse, la storia non progredisce affatto. Che non sia una linea, il Tempo, bensì un ciclo? Parafrasando Vico, si potrebbe dire che l’umanità non può che incontrare nelle sue peregrinazioni, da alcuni scambiate per evoluzione, “corsi e ricorsi storici”. Temo che pochi siano riusciti a connettersi con l’alieno e temuto Covid, e carpirne i messaggi.
In realtà non c’è stato alcun silenzio, ma chiacchiericcio: dalla pletora dei diktat degli yes man corrosivi, stupidamente competitivi e nocivi, alle fake news dei social, ai dibattiti in tivù, all’invasione di sms e video musicali sugli smartphone, video lezioni e video conferenze al computer, video virali. Voci e ancora voci, metalliche, virtuali.
Nessun silenzio. Solo chiasso. Confusione.
Nessun raccoglimento nell’umile terra dell’interiorità, cui connettersi risulta arduo. Il silenzio fa paura. Si è preda della vertigine, come davanti alla visione dell’azzurro di un cielo rarefatto colto da altitudini sovraumane. Per chi non riesca a guardare il Cielo, almeno guardi le nuvole. Ed ecco un ponte di barche appeso alle nuvole su un monte. Bianche cortine lo avvolgono in quell’ora fantastica che è la sera, prima che spunti la luna, e il monte è tutto blu. Due funamboli su un esile ponte avanzano, o forse danzano. Il ponte si piega come una fune. Quei due sono proprio uccelli persi nell’azzurro. Su un altro monte, di fianco al monte blu, pascolano cervi e nella neve germogliano i primi fiori di primavera.
Dott. Gustavo Cioppa
(Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia, già Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia)