Il problema è avere gli occhi e non sapere vedere,
non guardare le cose che accadono…
Occhi chiusi. Occhi che non vedono più. Che non
sono più curiosi. Che non si aspettano che accadrà
più niente. Forse perché non credono che la bellezza
esista. Ma sul deserto delle nostre strade Lei passa,
rompendo il finito limite e riempiendo i nostri occhi
di infinito desiderio.
Pier Paolo Pasolini
Quello che salta all’occhio, adesso, è un’accentuazione della mancanza di libertà. Ma non lamentiamoci. Siamo vivi, questo il miracolo, ogni giorno. Non che tutto, prima, fosse più bello, buono, genuino, giusto. Tutt’altro. Ma almeno un effetto collaterale positivo del virus c’è stato: la diminuzione dell’inquinamento. Abbiamo lasciato in garage le nostre automobili e, reclusi nelle nostre abitazioni, continuiamo a lavorare, magari più di prima, grazie allo smart working. Qualcosa è mutato nei nostri comportamenti. Restiamo a casa, resistiamo. Consapevoli e responsabili, evitiamo lo spettro del contagio. Intanto aspettiamo il vaccino, che ci faccia ritornare, finalmente, alla normalità. Già è una conquista la diminuzione dell’inquinamento, di cui hanno tratto giovamento soprattutto i malati d’asma. Ma quei droni che svolazzano in ogni dove come gigantesche libellule metalliche dai mille occhi, e quelle telecamere puntate come canne di fucili, non solo fuori, ma dentro casa? Senza dire dei satelliti, ‘cose’ superate, ormai, dalle nuove tecnologie. E che dire delle app a scopo sanitario?… Se prima esisteva una parvenza di libertà, nell’era del Coronavirus – tra i nuovi comportamenti e mutazioni varie, o modificazioni (spero non genetiche), abiti mentali, procedure – non più. Addio, Libertà… Speriamo sia solo goodbye, Libertà. Ma una cosa è certa: il mondo e l’uomo, dopo il transito di Covid19, e non ne siamo ancora usciti, non saranno più come prima. Saranno migliori?
Almeno potesse comparire l’ombrello di Mary Poppins, per volare altrove, in un punto della Terra non contaminato dal virus. Ma ammesso ci sia, il portentoso ombrello, non si potrebbe comunque andare da nessuna parte. La pandemia ha raggiunto ogni luogo del pianeta. E quegli slogan che imperversano sui Social, tanto tranquillizzanti quanto imbecilli: “Andrà tutto
bene…”, li trovi dappertutto, anche sul balcone di un’impresa di pompe funebri. Signore e signori, rallegriamoci: la fase da bollino rosso è finita. Siamo quasi nella fase due, da bollino giallo. Diminuiscono i decessi, i contagiati, i positivi, si chiudono i reparti di terapia intensiva.
Nessuno aveva immaginato quanta nostalgia avremmo avuto dell’abbraccio di parenti e amici, di una funzione religiosa, una sala di teatro, la visita a una mostra, una tavolata conviviale e anche lo stare pigiati in metro, che ci procurava un certo fastidio, ma che ora ci manca. Era il nostro mondo. Lo era, anche la ressa in aeroporto o in stazione, per salire su un treno, magari diretti nella tanto agognata vacanza. Viaggiatori verso il centro immobile della propria anima, lì conviene andare e fare un bel repulisti. Qualcuno forse aveva pensato a qualcosa del genere, ma era la trama di un romanzo distopico. E Ridley Scott, per Blade Runner (1982) aveva immaginato che l’anno fatidico fosse il 2019. Toh, l’anno del Covid.
Due ragazzi – mascherina e guanti di lattice – portano la spesa a chi è solo, emarginato, troppo anziano per esporsi alla minaccia di un nemico subdolo e invisibile. Il centro storico della città è spettrale, non c’è nessuno, tranne quei due. La pioggerellina di marzo fa ancora più belle le violette e gli alberi in fiore sono un antidoto alla paura. Dalla finestra aperta di un palazzo la musica di Funiculi Funiculà versione operistica allarga il cuore. I due ragazzi vanno mano nella mano, nell’altra la sporta della spesa, sperano che “La bellezza salverà il mondo”.
Nella fase tre si potrà tornare a sfiorarsi le mani, una guancia? Che ne sarà del contatto fisico, inscritto nella comune radice antropologica degli esseri umani, e pure degli animali? Loro potranno continuare a farlo, gli animali. Ma noi, probabilmente continueremo a guardarci con sospetto, almeno finché non ci sarà un vaccino. E se il Coronavirus avesse subito delle modificazioni? Certo, ragionando così si continuerà a vivere nel panico, succubi della paura.
Conviene navigare sottocosta, giorno per giorno, poi si vedrà.
Una sera, alle 23, nella mia via sono arrivate le macchine della polizia, seguite da una specie di trattore che sembrava un carro armato. L’altoparlante gridava di non uscire dalle proprie abitazioni fino alle 24 perché era in corso una sanificazione. Le luci bluastre delle volanti proiettavano delle figure sinistre sulle pareti delle case, così lugubri da sembrare disabitate. Al crepuscolo, per po’ di giorni si è sentito echeggiare nell’aria l’inno nazionale. Si spalancavano le finestre e la gente usciva sui balconi, e i più applaudivano. Dai terrazzi sventolava il tricolore. Era un marzo anomalo, da primavera inoltrata. Poi siamo rimasti attoniti alle parole del Primo Ministro Inglese, primo fautore della teoria dell’immunità di gregge, ahimè seguita da altri leader dopo di lui, ma non da noi. Fa inorridire il pensiero che si possa sacrificare la vita dei cosiddetti ‘deboli’ (anziani, immunodepressi, soggetti con patologie a rischio), per selezione
naturale destinati a soccombere, al fine di sviluppare una fantomatica immunità di gregge. Gli esseri umani non sono un gregge. Per fortuna sono italiano e non penso più di fuggire dal mio Paese. Sono orgoglioso che fra gli antenati degli italiani vi siano Dante, Michelangelo, Botticelli, Leonardo, Galileo, e la lista sarebbe interminabile; giganti che hanno fatto brillare l’Italia di vera civiltà e non di civilizzazione. Perché questi due nomi tra loro imparentati non sono la stessa cosa.
Negli ospedali di Bergamo, Brescia, Milano e di tutta Italia non si è verificata la deriva della pietà. Medici e infermieri continuano a prodigarsi con inalterabile dedizione nella cura degli ammalati di Coronavirus, che nella Fase uno purtroppo aumentavano ogni giorno. Negli ospedali si lavorava a turni estenuanti, in condizioni impossibili. Le agghiaccianti testimonianze dei medici – essere in prima linea senza nemmeno l’equipaggiamento – crescevano. L’emergenza da pandemia era al culmine. Il numero degli ammalati in terapia intensiva aumentava e, purtroppo, anche quello dei medici ammalati e del personale sanitario. La primavera era esplosa ma si respirava un’aria di morte, anche nei fiori e nei fili d’erba s’impregnava lo strazio dei condannati a morte senza nemmeno il conforto dei familiari accanto.
Dopo avere sfrondato l’essenziale dal superfluo, ritornano la compassione e l’empatia. Non si può non mettersi nei panni degli agonizzanti negli ospedali, i quali hanno come unico conforto gli occhi di un angelo: l’infermiera dietro la visiera. Faceva il giro del mondo la storia del medico che prestò il cellulare alla nonnina, la quale poté così parlare con la nipote per l’ultima volta e poco dopo morire serena. Ci si sentiva tutti uniti nello strazio e nella paura.
Beato chi riesce a piangere. È un po’ come fare un bel repulisti nell’anima, per ritrovare, dopo essersi liberati di ciò che è dannoso e superfluo, solo l’essenziale. Gli occhi, in fondo, non sarebbero stati creati per vedere, ma per piangere. (Jacques Derrida, Memorie di cieco).
Verso Pasqua, si è cominciato a parlare dell’addio alla migliore generazione – quella dei nostri padri e dei nostri nonni, di coloro che hanno visto la guerra e contribuito a costruire questo Paese – stroncata dal Coronavirus. Che gli anziani fossero i più colpiti si è saputo fin da subito. Non si sapeva nulla, invece, degli orrori delle case di riposo, dove il virus ha compiuto una strage.
In questa Fase uno si era uniti, ed era bello quel “sentirsi tutti sulla stessa barca”, ma forse quest’impulso alla fratellanza e alla solidarietà era solo un istinto di codardia. Era la paura a farci sentire tutti – Così lontani così vicini – resistenti e resilienti, ciascuno nella propria abitazione? Certo, in ogni parte del mondo, c’erano i soliti incoscienti che andavano al supermercato a fare shopping ogni ora del giorno, o a fare jogging, anche quelli che non l’avevano mai fatto prima. Era la speranza a buon mercato del qui e ora, nei nostri recinti, ma anche la speranza del poi, per cui si vagheggiava un mondo migliore, post virus, grazie al quale la Terra sarebbe diventata il migliore dei mondi possibili. Era l’indignazione verso la deriva della pietà di certi potenti e alcuni comportamenti aberranti. Si tirava un sospiro di sollievo. I nostri ospedali non chiudono le porte in faccia a chi non abbia i soldi per pagare le cure mediche, a differenza di altri Paesi. Qui da noi, almeno per ora, le code sono solo davanti ai supermercati e non ai negozi di armi e munizioni. Quanto a Mister Johnson – primo fautore dell’immunità di gregge – anche lui poi finito in terapia intensiva, be’ che dire? Non abbiamo certo gioito alla notizia. E quando è migliorato ci ha fatto piacere.
Siamo arrivati alla fine della Fase uno – quella più critica – ma gli assassinati dal virus ci sono ancora.
Si annota nella memoria, come in un diario di bordo, come un naufrago, il crescere dello spavento, ed è ansia, ma ci sono, anche, degli sprazzi d’azzurro. Ancora sopravvive la compassione di chi piange. Allora non è tutto perduto? Qualcosa d’umano sopravvive, e si sorride, nonostante il pianto. E si ripete il gesto sacro, ogni mattino: salutare e magari sorridere al dirimpettaio, anche lui prigioniero delle proprie paure, compagno di viaggio isolato nella tempesta. Si vorrebbe ridere, cantare, pregare, ma il silenzio sacro è rotto dalla pletora di diktat invasivi – nemmeno un banale: Ciao, come stai? – e tossici che ti vorrebbero soldatino di piombo o di carne, una cosa sola con la procedura. E se tu volessi replicare, stai pur certo che lo yes man e quelli dell’entourage ti direbbero che devi farlo – il lavoro agile o la didattica a distanza – in nome del dovere civico. E ti fanno persino sentire in colpa verso chi soffre davvero, e muore. Medici e infermieri con dedizione, compassione e sapienza, loro sì, lavorano davvero, e sacrificano ogni giorno la propria vita nell’inferno degli ospedali. Si dovrebbe tacere, almeno per rispetto verso i morti. Ma tu, povero prof, caro impiegato, cos’altro chiedevi se non un po’ di silenzio? Per connetterti non al computer o allo smartphone, nella gabbia che è diventata la tua casa. Non cresce il seme nel silenzio dell’umile terra?
I comportamenti sono cambiati. Ma quanta e nuova aberrante alienazione. Punti di vista. Che non si lamentino quelli che hanno la fortuna di lavorare, ma ringrazino a mani giunte per ciò che hanno: la salute, una casa, un lavoro. Soprattutto lavorino, e più di prima, tanto da non avere il tempo per pensare, una benedizione – il superlavoro – per scacciare i cattivi pensieri.
Per alcuni l’attesa della fine di questa guerra batteriologica somiglia tremendamente al copione beckettiano di Aspettando Godot. Ma dovrà pur finire?!… L’altra attesa – quella di un mondo
migliore – ahimè, sarà sine fine. Sia che si guardi a un passato remoto o a un futuro remoto, l’uomo non cambia. Anche negli ambienti più ostili, per un’insopprimibile legge di sopravvivenza gli organi dell’uomo riescono ad adattarsi.
Un’idea di speranza è nei ‘disegni naturali’ di un ragazzo della Costa del Galles che, seppure effimeri, rinascono dopo che l’onda li ha cancellati. L’uomo non cambia, nel bene e nel male. Impossibile arrestare il piacere di creare: flusso inarrestabile, come la vita, come la freccia di una spirale puntata all’esterno. Ogni giorno quel giovane, armato di rastrello, pazienza e determinazione, va sulla spiaggia per dare forma con le mani a qualcosa di bello, nuovo e irripetibile, come la vita. Ogni forma di vita. Perché lo fai? – gli hanno chiesto – Per la mia salute mentale… ha risposto. Un giovare a sé e agli altri, questo il segreto delle creazioni effimere di quel ragazzo.
La sensazione di essere immersi nell’oscurità in pieno giorno. Le case, il cielo, il mare, il battello attraccato al molo, tutto è grigio plumbeo. Ma un lembo della cabina è illuminato. La parete, di un bianco metallico, è come se brillasse di luce propria. Partirò da lì, da un punto luminoso in mezzo al buio. Ammesso riesca a conservare i miei neuroni. A patto di non farmi risucchiare da certe gabbie che di fatto hanno modificato la vita di tutti. Prima o poi il cielo si squarcerà, e il battello salperà. In questa interminabile quarantena, ancora occorre raccogliersi in sé, nel silenzio, come Noè nell’arca. È consolante che almeno i nostri amici a quattro zampe siano immuni al virus, almeno desidero pensare così, anche se alcuni studiosi non ne siano del tutto sicuri.
Ancora occorre raccogliersi in sé, nel silenzio, poiché di ciò di cui non si può parlare si deve tacere. (Ludwig Wittgestein, Tractatus logico-Philosophicus).
Mi piace pensare a quel lembo di luce come a un barlume di speranza – ognuno ha la propria – fosse pure quella dell’immaginazione, del sogno. Ma affinché quel punto luce dilaghi e sia finalmente aurora, occorre che ciascuno conservi il bene più prezioso, inscritto nel DNA di ogni essere umano, e che nessuno, nemmeno uno stupido virus, potrà distruggere: la libertà.
Dott. Gustavo Cioppa
(Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia, già Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia)